Modelli di psicoterapia cognitivo-comportamentale per la schizofrenia

Negli ultimi decenni si sono sviluppate nel paesi di lingua inglese diverse forme di psicoterapia cognitivo-comportamentale per pazienti schizofrenici fra loro correlate. Nell’ambito del trattamento dei sintomi positivi dei disturbi psicotici, la psicoterapia cognitivo-comportamentale si rivolge sia alla forma che al contenuto delle credenze deliranti. Si presume che il contenuto del delirio rappresenti il tentativo di dare un senso alle proprie esperienze, che possono essere di per sé anomale (come nel caso di deliri generati da esperienze allucinatorie) oppure relativamente normali, seppur elaborate in modo distorto. In entrambi i casi i processi di pensiero implicati nelle credenze deliranti sono simili ai processi di pensiero “normali” e si differenziano solo dal punto di vista quantitativo, per ciò che riguarda il grado di resistenza al cambiamento da parte di prove ed eventi contrari. (Perris, McGorry, 2000)

Se il contenuto del delirio rappresenta un tentativo di dare senso all’esperienza, la forma è espressione di possibili errori o distorsioni delle modalità attraverso cui il paziente compie questa operazione di dotazione di senso. “L’obiettivo dell’intervento è di aiutare il paziente a sostituire le sue credenze mal adattative con credenze più accurate, o almeno con credenze che diano un senso più adattivo alle esperienze in questione; inoltre egli può imparare ad analizzare e valutare le sue credenze in base alle evidenze disponibili” (Perris, McGorry, 2000, pag. 8)

Di seguito vengono riportati in modo sintetico i principali modelli cognitivo-comportamentali di approccio ai sintomi psicotici positivi.

Terapia cognitivo-comportamentale della schizofrenia usando un razionale di normalizzazione

Due approcci simili alla psicoterapia cognitivo-comportamentale per la schizofrenia sono stati sviluppati da Kingdon e Turkington (1991, 1994) e Fowler, Garety e Kuipers (1995).

a)   Kingdon e Turkington hanno basato il loro approccio sulla premessa che i sintomi schizofrenici variano solo quantitativamente dai processi “normali” e si collocano all’estremo di un continuum che si estende dal normale al patologico. Secondo gli autori, così come nel trattamento della depressione o dell’ansia è fondamentale spiegare al paziente l’origine dei sintomi, analogamente diventa necessario fornire delle spiegazioni sui sintomi della schizofrenia quando si intende utilizzare la TCC con pazienti psicotici. Tuttavia, le spiegazioni che tradizionalmente vengono utilizzate fanno riferimento ai fondamenti biologici della schizofrenia ed enfatizzano in modo evidente le differenze fra la sintomatologia psicotica e l’esperienza “normale”. Numerose ricerche hanno però messo in luce come nella schizofrenia possano essere evidenziati segni e sintomi simili a quelli mostrati dagli individui sani. Allucinazioni e deliri possono manifestarsi in alcuni stati confusionali su base organica, oppure svilupparsi in persone sottoposte a segregazione (ad esempio nei casi di ostaggio o protratto isolamento); possono prodursi durante il sonno o nel caso di deprivazione sensoriale (Perris, Merlo e Brenner, 2005). Anche le convinzioni allucinatorie possono essere rapportate ad idee diffuse nella società ( ad esempio la telepatia, l’astrologia, la credenza in forze magiche o entità soprannaturali, ecc.). Idee transitorie di influenze esterne, di paranoia si manifestano molto frequentemente nella popolazione “normale”, ma di solito vengono scartate in tempi brevi. Gli autori ipotizzano che in momenti di stress, la “ricerca di un senso” possa indurre le persone ad accettare più facilmente tali idee come vere e questo avverrebbe tanto più facilmente quanto più una persona è isolata, priva di riferimenti familiari e/o amicali con cui confidarsi, oppure inserita in contesti in cui genitori, amici o partners hanno credenze o modi di comunicare anormali, così che la persona ne sarebbe ulteriormente confusa.  Su un piano terapeutico, Kingdon e Turkington sostengono che spiegare al paziente e alla sua famiglia i sintomi schizofrenici in un’ottica di “normalizzazione”, ovvero come effetti di situazioni di stress su un soggetto vulnerabile, contribuisce a ridurre la riprovazione sociale e getta le basi per trattare deliri e allucinazioni con argomentazioni razionali all’interno della TCC. In quest’ottica, nella terapia si parte dalla ricostruzione con il paziente degli eventi di vita che hanno preceduto l’esordio psicopatologico e si analizzano inoltre gli elementi di vulnerabilità individuale che lo caratterizzano (deficit sensoriali, percettivi e di comunicazione, aspetti psicologici e sociali). Questa vulnerabilità va descritta al paziente come costituita da componenti genetiche e da componenti neuropsicologiche, espresse nella forma di carenze percettive ed attentive legate a traumi alla nascita o ad altre anomalie organiche (Brenner, 1989). Il concetto di stress-vulnerabilità viene descritto al paziente come un’interazione fra specifiche suscettibilità individuali e familiari ed eventi stressanti che renderebbero ragione dello sviluppo dei sintomi positivi. A quel punto vengono analizzati e discussi con la persona gli specifici sintomi che si sono manifestati.

b)   Fowler, Garety e Kuipers (1995), così come Kingdon e Turkington, hanno sviluppato un approccio cognitivo-comportamentale alla schizofrenia basato su un razionale di normalizzazione, in base al quale le esperienze normali e psicotiche possono essere considerate come ai due estremi di un continuum. Gli autori sottolineano come l’applicazione delle teorie psicologiche cognitive ai sintomi psicotici faciliti il riconoscimento dei collegamenti fra esperienze e convinzioni normali ed esperienze psicotiche che, in questo modo possono cominciare ad acquisire un senso e perdere il loro carattere di inspiegabilità e bizzarria. Infatti, ad un esame approfondito, alcuni contenuti dei deliri riportati dai pazienti non si discostano molto da alcune credenze diffuse fra la popolazione “normale” (ad esempio sull’ipnosi, sulla telepatia o l’influsso di forze malefiche). Inoltre, alcune indagini hanno dimostrato che lievi anomalie percettive o del pensiero (ad esempio esperienze di déjà vu, esperienze di tipo schizotipico, percezioni anomale o allucinatorie) si verificano in una consistente percentuale della popolazione sana (circa il 15%-20%). Si sa anche che alcune esperienze psicotiche possono verificarsi in persone normali in condizioni estreme (Kingdon e Turkington, 1994). Infine, è stato evidenziato come soggetti che hanno avuto tali esperienze presentino spesso errori di elaborazione cognitiva sovrapponibili a quelli di pazienti francamente psicotici (Perris, McGorry, 2000) e come in condizioni di incertezza, noi tutti siamo portati a cercare informazioni che confermino le nostre convinzioni (Tversky e Kahnemann, 1974). L’insieme di questi studi sembra dare sostegno all’ipotesi di un continuum fra esperienze normali e deliranti: le credenze deliranti potrebbero derivare da tentativi di dare senso alle proprie esperienze e alla propria vita e sarebbero mantenute e rafforzate da processi cognitivi “normali” come quelli, ad esempio, che  si hanno nelle profezie che si autoavverano. I pazienti deliranti, in modo analogo ai soggetti sani, possono andare incontro a errori di giudizio e di ragionamento che danno origine a credenze ben radicate anche se prive di supporto razionale.

Questi elementi di base forniscono al terapeuta una chiave di lettura dell’esperienza delirante che, utilizzando le proprie conoscenze sulle modalità di formazione delle credenze sia nei soggetti normali che in condizioni patologiche, può riuscire a dare un significato ad esperienze bizzarre che sembrano essere prive di senso. In questa prospettiva, i deliri sono credenze, ovvero mini teorie sull’esperienza e sul mondo. Secondo Fowler, Garety e Kuipers (1995) i principi fondamentali della prospettiva cognitiva delle psicosi, possono essere riassunti come segue:

a.    Può essere utile considerare la situazione di vita di una persona affetta da psicosi come risultato dei tentativi di far fronte ad una disfunzione biologica. L’ottica migliore sarebbe quella di cercare di vedere in quello che succede alle persone affette da psicosi l’effetto dei loro sforzi per far fronte alle disfunzioni psicotiche. Questo modello del disturbo può aiutare il paziente a biasimarsi meno per le sue difficoltà, orientandolo verso l’uso di neurolettici e di interventi specialistici capaci di ridurre i sintomi positivi, di ridurre il rischio di recidive e di migliorare la disabilità sociale. Inoltre può favorire nella persona l’accettazione del fatto che ci sono dei limiti ai benefici dei trattamenti, specie se sono presenti gravi disabilità, e a collaborare con il terapeuta per definire obiettivi realistici.

b.   Numerosi processi, diversi da caso a caso, possono contribuire alla formazione e al mantenimento dei sintomi psicotici. Diventa pertanto necessario operare una valutazione del singolo caso: capire come i diversi sintomi varino nel tempo e si influenzino a vicenda è un obiettivo primario della valutazione cognitivo-comportamentale, che può indicare la relativa importanza dei fattori biologici e psicosociali. La valutazione è fondamentale per scegliere le tecniche più appropriate in risposta alle esigenze del singolo paziente; segue l’applicazione di specifiche tecniche per affrontare le diverse difficoltà, con particolare riferimento ai sintomi positivi resistenti ai farmaci.

c.    La psicosi viene vissuta dai pazienti come alterazione dei pensieri e delle emozioni, alterazione che tendono ad attribuire a cambiamenti non loro, ma del mondo circostante. Se si cerca di convincere i pazienti con un approccio didattico che soffrono di un disturbo medico, è possibile avere risultati controproducenti soprattutto in presenza di convinzioni deliranti fortemente strutturate. In tal senso, diventa importante considerare i vissuti soggettivi del disturbo psicotico e spiegare al paziente il disturbo in chiave cognitiva, come tendenza a commettere errori di giudizio nel tentativo di dare un senso a eventi sociali e a sensazioni somatiche insoliti e anche ai propri pensieri ed emozioni. Questa ridefinizione ha il vantaggio di descrivere il paziente psicotico come una persona razionale, anche se portata (come tutti) a commettere errori di giudizio su di sé e sul mondo. Compito del terapeuta è aiutare il paziente, utilizzando un approccio basato sulla collaborazione piuttosto che sulla opposizione o il conflitto, ad osservare i suoi problemi da punti di vista meno disfunzionali.

Secondo gli autori, vale la pena di affrontare le convinzioni deliranti solo quando sono associate ad angoscia o interferiscono con il funzionamento sociale della persona e non solo perché sono eccentriche o bizzarre. Inoltre, gli interventi devono essere adattati alla consapevolezza di malattia del paziente: nel caso in cui il paziente non sia critico, il terapeuta dovrà lavorare “all’interno del delirio”, all’interno degli schemi mentali del paziente, accordandosi solo sul fatto che “non si è d’accordo”. La maggior parte delle tecniche proposte rappresentano adattamenti di tecniche classiche della TCC: si va dal dibattito diretto delle convinzioni del paziente, alla presentazione di punti di vista alternativi fino ad arrivare a test comportamentali per provare la fondatezza delle credenze deliranti e alla messa in discussione degli schemi cognitivi.

Sebbene il terapeuta abbia il compito di rassicurare esplicitamente il paziente sul fatto che le sue convinzioni rappresentano un tentativo ragionevole di spiegare le esperienze passate, è importante non dare al paziente l’impressione di accettare in toto le sue convinzioni. Se questo può infatti facilitare la presa in carico iniziale, rischia poi di danneggiare la relazione terapeutica nel momento in cui il terapeuta prova a modificare le convinzioni deliranti del paziente.

Miglioramento delle strategie di fronteggia mento (Coping Strategy Enhancement – CSE)

Il training delle abilità di coping (fronteggiamento) rappresenta un approccio terapeutico pragmatico per le allucinazioni persistenti e i deliri. Tale approccio è stato sviluppato da Tarrier e colleghi (1992, 1993) ed è basato sull’identificazione delle strategie di coping già utilizzate dai pazienti psicotici in modo implicito per affrontare i sintomi o il disagio che ne risulta. Il CSE prevede di sviluppare queste strategie in modo sistematico addestrando i pazienti a potenziare quelle già attive  o a promuoverne un uso più adeguato e/o ad aggiungere nuove tecniche al repertorio già esistente. Partendo da un modello biopsicosociale delle allucinazioni e dei deliri, il CSE ha lo scopo di diminuire i sintomi psicotici, addestrando il paziente ad affrontare sia gli eventi scatenanti, sia le reazioni cognitive, comportamentali e fisiologiche a questi stimoli ambientali.

 

Terapia cognitiva dei deliri e delle allucinazioni uditive

Con tutta probabilità, la forma di trattamento più sviluppata e studiata in modo più rigoroso è la “terapia cognitiva” di Chadwick, Birchwood e Lowe, sviluppata in Inghilterra negli anni ’90. Gli autori hanno applicato un modello comune di terapia cognitiva a diverse popolazioni di pazienti e a diversi setting, sviluppando un approccio individuale ai deliri e alle allucinazioni in pazienti psicotici cronici resistenti alla cura.

Chadwick e Birchwood (1996) partono dalla messa in discussione del concetto di schizofrenia inteso come sindrome unica, discontinua rispetto all’esperienza normale e propongono di affrontare i fenomeni psicotici studiando i singoli sintomi. In tal senso deliri e allucinazioni sono sempre più pensati in termini di normali principi psicologici, dando attenzione ai tentativi individuali di comprendere le proprie esperienze, per quanto anomale esse siano. Il modello cognitivo che gli autori utilizzano per lavorare con i deliri e le allucinazioni uditive si basa principalmente sulla terapia cognitiva di Beck (1979) e sulla RET di Ellis (1962): la cornice teorica di riferimento più chiara ed euristicamente utile è il modello psicoterapeutico ABC di Ellis.