di Lucia Destino

Centro di Salute Mentale.

È mattina e dalla finestra entra una luce fioca, contro il vetro sbatte violentemente la pioggia.

Io e il mio tutor stiamo portando avanti un progetto: l’idea è quella di proporre un gruppo di psicoeducazione a pazienti con diagnosi di Disturbo Bipolare e il mio compito oggi è quello di testare alcune persone e valutare se rientrano nei criteri di inclusione.

Sulla scrivania ho plichi di fogli che entro sera decreteranno chi potrà essere ammesso e chi no.

Mi godo il silenzio e la tranquillità sorseggiando il mio caffè bollente; tra poco davanti a me si alterneranno storie nuove.

Di queste persone, al momento, non so nulla: sono nomi e cognomi e una diagnosi.

Lo “spettro bipolare” li accomuna, ma come può una diagnosi descrivere una persona?

In effetti non può.

È un criterio, utile per quello che abbiamo in mente, ma non ha alcuna pretesa di esaustività.

Le persone sono complesse e cento miliardi di neuroni non possono essere descritti e circoscritti, neanche da una diagnosi.

Mi appunto mentalmente questo pensiero, uno degli obiettivi del gruppo è proprio combattere lo stigma, anche e soprattutto quello autodiretto, il più crudele.

Percorro il corridoio per cercare la prima paziente.

Mi affaccio in sala d’aspetto, chiedo se c’è Camilla e una ragazza bionda smette di fissarsi la punta delle scarpe per rivolgermi un sorriso timido.

Ha la grazia di una ballerina, sembra uscita da un carillon.

Ci accomodiamo e a pelle ho la sensazione di avere davanti una ragazza delicatissima, mi concentro.

Iniziamo con i dati: anamnesi familiare, fisiologica, patologica e psichiatrica e poi tutta la batteria di test.

È l’iter che seguo ogni giorno: i criteri di inclusione, oltre alla diagnosi di Disturbo Bipolare, prevedono che i pazienti siano in fase di eutimia da almeno un mese e che seguano la terapia farmacologica prevista.

Camilla è paziente: risponde, spiega, ascolta.

Mi racconta che fino a poco tempo fa viveva in una fredda città del nord per diventare avvocato, come tutti i componenti della sua famiglia.

Un giorno è stata male, così male che è finita al Pronto Soccorso e da lì in psichiatria.

Ricorda poco di quella mattina, ha ricostruito tutto tramite i racconti del suo fidanzato e stenta a riconoscersi in quella ragazza nervosa e sospettosa, non rammenta le notti insonni, i grandi fiori rosa dipinti d’impeto sui muri della sua camera con gli evidenziatori, l’aggressività verso i vicini di casa.

Quel giorno per la prima volta Camilla ha sentito parlare di Disturbo Bipolare, è tornata nella città che ora ci ospita entrambe e, insieme al suo psichiatra, ha concordato che per ora è meglio rallentare il ritmo, decisamente troppo incalzante e pericoloso per la sua stabilità.

Prima di lasciarci le pongo l’ultima domanda: quali sono le aspettative circa il gruppo che stiamo cercando di realizzare?

Camilla si concentra, ci pensa.

Vorrebbe capire cosa le è successo, cosa le succede, trovare un punto fermo in questa tempesta che l’ha travolta.

È la volta di Sabrina, una signora gentile che mi racconta che lei con questo disturbo lotta da tempo. Ha ricevuto diagnosi dopo una lunghissima fase depressiva che l’ha tenuta a letto per mesi, derubandola del lavoro, dell’abitudine di sfornare torte al cioccolato, dei pomeriggi spesi a giocare con i nipoti.

Ora va meglio, si alza e si prende cura di sé, ma ancora si sente in balìa delle onde.

Da questo gruppo lei vorrebbe capire come fare a tornare a lavoro, passando il suo tempo libero con i suoi nipoti in una stanza piena di profumo di dolce.

È il momento di fare una pausa, osservo i fogli siglati e decido di cercare qualcuno con cui prendere un altro caffè.

Tornata in studio l’agenda mi suggerisce che è l’ora di andare a prendere Francesco, un signore distinto che mi cede il passo e mi chiede come sto.

Francesco ha studiato psicologia, ma poi nella vita ha portato avanti l’attività di famiglia: osserva il mondo e le persone da dietro un bancone e nel tempo libero scrive poesie.

Per Francesco la meraviglia è troppa per essere contenuta in un negozio.

A prima vista sembra un signore malinconico, ma mi spiega che tutta la sua vita è stata costellata da episodi in cui prendeva il sopravvento la velocità: erano veloci i pensieri, le azioni, le decisioni.

Era veloce la rabbia che sorgeva e tramontava dopo aver lasciato dietro di sé solo l’ombra di quello che era lui.

Francesco ha scoperto di afferire allo spettro bipolare da una manciata di anni e questo gli ha cambiato la vita.

Lo dice la letteratura: in media passano circa dieci anni dal primo sintomo alla diagnosi di disturbo bipolare, più spesso viene confuso con altro, spesso con una depressione unipolare.

Con la diagnosi Francesco ha scoperto che quello che succedeva ha un nome.

Lo studiamo in università: il linguaggio crea il pensiero, ma il senso è tutto qui.

Francesco ha dato un nome e una spiegazione a qualcosa che fino a un momento prima sfuggiva dal suo controllo.

L’intento non è giustificare o deresponsabilizzare, lo scopo è capire, monitorare, gestire.

E’ ciò che il nostro gruppo si prefigge di fare.

Francesco sembra affaticato dalla sfilza di test, gli dico che manca poco e che presto sarà “libero come l’aria” e lui mi risponde che semmai è l’aria ad essere libera come lui.

Ha ragione lui: la poesia non ha spazi propri, si può trovare ovunque, anche tra le polverose mura di un Csm di una piccola città.

Sto per accogliere l’ultimo paziente per oggi.

Sono stanca.

Davanti a me c’è Gabriele, un ragazzo altissimo dal sorriso sincero.

Gabriele ha una decina d’anni più di me eppure sembra aver vissuto un secolo: mi racconta della passione per la medicina fin da quando era un bambino, della grave malattia che lo colpisce in adolescenza, della scelta di diventare militare, dell’episodio maniacale che segna la svolta, della nuova vita da infermiere, dei momenti in cui alzarsi dal letto e affrontare la giornata sembra una sfida impossibile da vincere, del suo amore per il pianoforte e la musica jazz.

Gabriele è curioso, compila i test e fa domande, scherza, è a suo agio.

Dal gruppo spera di capire se c’è un confine tra lui e il disturbo e di conoscere persone con cui condividere esperienze.

Mi ha parlato, come chi lo ha preceduto, in modo aperto, sincero, fiducioso.

Nonostante fossi un’estranea.

È una cosa che non posso fare a meno di pensare ogni volta che vedo un paziente per la prima volta, che sia per una valutazione puramente diagnostica o per l’inizio di un percorso, una cosa che noto sempre e ogni volta mi sorprende, di cui ogni volta sono grata.

Prima di tornare a casa correggo i test: Camilla e Gabriele soddisfano i criteri, sono ammessi al gruppo.

Sabrina e Francesco invece no, non sono in stato di eutimia, condizione necessaria per accedere al gruppo, per loro tutela e per quella dell’intero gruppo.

A loro verrà suggerito unicamente un percorso individuale, in attesa di essere ritestati magari per un gruppo successivo.

Domani testerò altre quattro persone.

Altre quattro storie.

Questo lavoro è un privilegio.

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Illustrazione di Elena Bilotta