di Silvia Timitilli

 

Il secondo colloquio con Filippo era alle porte. Da giorni riecheggiava nella mia mente quella sua non risposta, quell’andare dritto alla soluzione senza passare dal dare un nome e un’identità alla minaccia costituita dalla sudorazione.

Mi ero data una spiegazione, ovvero che la mia domanda fosse stata troppo aleatoria, e avevo messo a punto una strategia: aiutare Filippo a individuare l’elemento chiave della minaccia calandoci in una situazione reale.

Inizia così il nostro nuovo incontro e vado a caccia, fin da subito, di un papabile episodio da approfondire insieme e mi sento fortunata perché ce n’è uno fresco fresco, di un paio di giorni prima.

Inizio a spiegargli l’elemento portante del nostro lavoro, l’ABC, e Filippo, apparentemente con grande facilità, riesce a ricostruire i vari tasselli: l’evento (il momento in cui entra nella sala riunioni dove sono già presenti vari colleghi), il pensiero (“Se sudassi sarebbe terribile, i miei colleghi mi vedrebbero!”) e l’emozione (ansia).

“È lì” mi dico “l’elemento chiave! Proprio davanti ai miei occhi! Bene…adesso andiamo a vederlo più da vicino” e così cerco di approfondire. “Come mai” gli domando “essere visto sudare dai suoi colleghi in quel momento, quando è entrato nella sala riunioni, sarebbe stato così terribile?”. Eccoci di nuovo, quello sguardo, e mi risponde “Macché terribile! Non succederebbe assolutamente niente!”. Rimango sorpresa e non comprendo la sua reazione, ma non demordo. Gli spiego il funzionamento dell’emozione dell’ansia, il suo manifestarsi a livello somatico e soprattutto le caratteristiche del pensiero da cui è generata. Filippo sembra propenso ad ascoltarmi anche se quello sguardo è ancora là, pur quanto più velato, e ritento una seconda volta: un altro buco nell’acqua! Torna più netto quello sguardo, Filippo afferma fermamente che lui sa che non c’è alcun pericolo e inizia a parlare di altro. Lo seguo anche perché è stato un momento di tensione tra noi e non è bene che calchi troppo la mano, del resto siamo solo al nostro secondo colloquio.

Quello strano meccanismo si è attivato non solo in quell’incontro, ma in molti altri incontri successivi. Il clima relazionale era pesante, io avvertivo frustrazione perché vedevo vicino il tesoro, la chiave del nostro lavoro, ma più mi avvicinavo, più Filippo mi allontanava da lì.

La frustrazione cresceva di colloquio in colloquio, le avevo provate tutte ai miei occhi e non sapevo più dove andare a sbattere la testa, quale strada percorrere. C’erano momenti in cui con Filippo lavoravo in maggiore armonia, anche se quello sguardo era sempre presente ma meno marcato, erano i momenti in cui ricostruivamo insieme i meccanismi di mantenimento della sua sofferenza: il rimuginio anticipatorio (giorni prima di una riunione o di un’uscita vagliava i vestiti da indossare quel giorno, cercando di prevedere ogni minimo imprevisto che avrebbe fatto realizzare la tragedia), gli evitamenti (tutti i continui rifiuti degli inviti ad uscire, soprattutto evitando Paolo, un amico di vecchia data, sempre pronto a fare battute) e i comportamenti protettivi (la scelta del vestiario e della posizione da assumere dentro una stanza, l’assunzione dei farmaci).

Ero sempre più frustrata e scoraggiata, ogni volta salutavo Filippo convinta che al colloquio successivo non l’avrei rivisto e invece, puntuale e preciso, era sempre lì. Che fare?! Ricorsi a un’arma potente, la supervisione, perché era palese che qualcosa mi sfuggisse e mai scelta fu migliore. Mi ricordo ancora quelle parole “Silvia stai chiedendo troppo al paziente, quando gli fai quelle domande è come se tu gli chiedessi di mettersi nudo di fronte a te. Lui è molto spaventato dalla sofferenza”. Tutta la mia visione cambiò: mi immaginai come poteva sentirsi in quella situazione, il suo spavento e il suo imbarazzo. Ecco il motivo per cui mi allontanava da lì, da quella sofferenza che lo spaventava tantissimo, a cui non era abituato a stare accanto perché si aspettava che bruciasse in modo insopportabile e che lo avrebbe reso ancora più fragile. Bene! Ma come fare? Iniziai con l’essere meno inquisitoria, più disposta all’ascolto e propensa anche ad allargare il cerchio di osservazione nella vita di Filippo.

Un giorno Filippo si presenta a colloquio molto preoccupato, la sua preoccupazione non ha niente a che fare con la sudorazione, riguarda invece uno dei suoi tre figli, il maggiore, che sembra soffrire di attacchi di panico e che non riesce più a frequentare l’università. Mi chiede come poter essergli di aiuto, lo vedo sinceramente preoccupato. Al di là del solito suggerimento di inviare il figlio in terapia, mi viene in mente anche un’altra soluzione. Gli faccio presente che gli anni di difficoltà che Filippo ha affrontato possono essere di grande aiuto per suo figlio, potrebbe mettersi accanto a lui e parlargli di questa sofferenza, delle sue emozioni e di cosa ha fatto per gestire tutto questo nel corso degli anni. Gli faccio un esempio per spiegarmi meglio, un esempio magari stupido e sempliciotto agli occhi di Filippo, abituato a citare in colloquio fior fior di filosofi:

“Ci sono molti supereroi nel mondo dei fumetti…sa qual è il mio preferito?”

Ecco comparire quello sguardo sprezzante, sì ai suoi occhi è proprio un esempio sempliciotto…pazienza! Ho imboccato una nuova strada ed è bene che continui a percorrerla un altro po’ prima di valutare se sia funzionale o meno.

“Batman!” proseguo “Mi piace molto di più di Superman, perché per Superman è tutto più semplice, è un supereroe perché è già stato dotato di un pacchetto di superpoteri in partenza. Invece Batman non ha un superpotere che sia uno, ha molti soldi, questo è vero, ma nessun superpotere”.

Quello sguardo sembra in standby adesso e io proseguo.

“Bruce Wayne è un uomo traumatizzato, ha visto uccidere i suoi genitori davanti ai suoi occhi. Quella stessa immane sofferenza diventa il suo superpotere, è da quella sofferenza che nasce Batman che lotta giorno dopo giorno per affrontarla”.

Quello sguardo è sparito, lascia spazio ad un’espressione sorpresa e al tempo stesso sollevata. È come se si fosse aperta una prospettiva nuova nella mente di Filippo: la sofferenza non è più un buco nero da cui tentare di fuggire ad ogni costo perché in grado di distruggere tutto; la sofferenza sembra diventare dolorosa sì, ma anche generativa. Generativa per aiutare se stesso ma, soprattutto, per consentire un avvicinamento sincero ed emotivamente caldo a suo figlio, standogli accanto nel suo percorso di terapia e di gestione della sofferenza e magari condividendo con lui gli intoppi e le difficoltà che si possono incontrare sulla tortuosa strada della psicoterapia.

Non fu solo una fugace impressione la mia, l’illusione di aver aperto un varco su una nuova strada mai battuta prima d’ora, successe davvero, giorno dopo giorno e incontro dopo incontro.

Col tempo e con delicatezza Filippo aprì grandi porte sulla sua sofferenza, prima con me e piano piano con le persone per lui importanti. Mi ricordo quando mi parlò della perdita di un gattino adottato da pochi mesi, questo evento doloroso per la sua famiglia gli consentì di avvicinarsi alla figlia minore condividendo con lei il dolore della perdita “di qualcuno troppo giovane per morire e che avrebbe avuto tutta la vita davanti”. Filippo stava parlando non solo del gattino appena perso, ma anche di una dolorosa perdita avvenuta 31 anni fa, un anno prima che la sofferenza si manifestasse sotto forma di fobia sociale. Avevamo parlato insieme di questo evento, un lutto ancora non risolto e che piano piano si stava iniziando a sciogliere. Prima era un tabù, i figli sapevano ma nessuno ne parlava, da quel giorno in poi si aprì con loro, parlandone prima con la figlia minore appunto e poi con gli altri.

Col tempo Filippo riuscì ad aprire anche la porta della minaccia rappresentata dalla sudorazione: aveva origini antiche, Filippo mi parlò della sua famiglia e di come in questo nucleo familiare la sofferenza mentale venisse trattata. Segni di sofferenza erano ammessi solo se si trattava di sofferenza fisica, altrimenti si veniva tacciati dagli altri membri come mentalmente deboli e per questo falliti. Ecco perché Filippo mi teneva così lontano da lì! Vi era una regola talmente rigida (“Se sto male mentalmente, allora sono un fallito”) in grado di impedirgli di manifestare qualsiasi segnale di sofferenza emotiva. Avevamo invece scoperto, nel nostro percorso, che quella sofferenza era non solo avvicinabile ma anche gestibile e generativa, potendo diventare veicolo potente di vicinanza con l’altro.

Ho imparato tanto nel viaggio di con Filippo: l’arte della pazienza e del saper leggere non solo il detto ma anche il non detto, ovvero quei “movimenti” che la persona compie in seduta per tenersi lontano da una sofferenza troppo minacciosa da gestire.

Salutai Filippo quando riuscì a non rifiutare più gli inviti di Paolo e a intervenire alle riunioni aziendali prendendo la parola. L’ultima immagine che ho di lui è quella di un’intervista televisiva fatta su una rete locale: Filippo era accanto ai colleghi, conoscendolo vedevo la sua tensione, riuscì a prendere parola e rispondere alle domande…aveva affrontato una grande prova e oggi me lo immagino capace di affrontare molto altro ancora riuscendo ad accettare il suo dolore, prendendosene cura e tirando fuori il Batman che c’è in lui.

Timitilli – Il caso di Filippo seconda parte (1)