di Benedetto Astiaso Garcia

Donatello, manager di azienda di cinquant’anni, giunge in terapia, indirizzato da un mio vecchio paziente, circa tre mesi fa.

Sposato e padre di tre figli, uno dei quali con diagnosi di Disturbo Ossessivo Compulsivo, appare sin da subito visibilmente agitato, irrequieto e preoccupato, nonché ben consapevole della propria diagnosi: “Soffro di ipocondria da quando è nato il mio primo figlio, ventisei anni fa. La situazione è precipitata negli ultimi due anni, momento in cui ho visto due miei zii venire a mancare per cause oncologiche”. Aggiunge: “Ho seguito diversi percorsi psicoterapeutici, tutti interrotti dopo quattro o cinque sedute. Nessuno di loro è riuscito a capirmi, cercando di darmi certezze che non avevano alcun effetto su di me! Questa nuova possibilità psicoterapeutica la considero un po' come l’ultima spiaggia”.

Negli ultimi ventiquattro mesi il paziente conta più di dieci accessi al pronto soccorso e oltre settanta visite specialistiche: lastre, risonanze magnetiche, gastroscopie, colonscopie, esami ematologici, accertamenti cardiologici, neurologici e dermatologici, rappresentano solamente alcuni dei consulti ai quali settimanalmente si sottopone: “Vivo con uno stato di terrore costante… Sono certo di avere qualcosa! Abbassare la guardia da un punto di vista prudenziale significherebbe condannarmi ad una morte lenta e terribile. Per quanto i miei sintomi siano vaghi, o a volte completamente assenti, basta una semplice notizia appresa in televisione per sconvolgermi totalmente. Se non ho niente perché sto così male?”.

A tale condizione ansiogena si affianca una franca deflessione umorale, prevalentemente connessa ad una perdita del proprio senso di autonomia, forza e virilità, sia psichica che fisica. E’ facile immaginare come, in termini di secondario, non fatichi a disprezzarsi e criticarsi per le conseguenze che la sua ansia da malattia genera a livello familiare, professionale ed economico: “Sto rovinando la vita a me e ai miei figli! Se vado avanti in questo modo finirò per perdere il lavoro e dilapidare tutto il mio patrimonio a causa delle migliaia di euro spesi per sentirmi dire che non ho nulla! Mia moglie non reggerà ancora a lungo e i miei figli non cresceranno di certo sani con un padre così”.

In termini di vulnerabilità storica, oltre ad un attaccamento insicuro, a partire da esperienze relazionali precoci con la madre, viene rimandata al paziente un’immagine di sé connotata da fragilità, debolezza e vulnerabilità: “Mentre gli altri bambini potevano sudare, prendere freddo, mangiare qualsiasi cosa e stancarsi, io ero sempre trattato come un fiore raro che doveva essere maneggiato con estrema cura”.

Donatello racconta inoltre di aver assistito per l’intera vita a reazioni esagerate da parte del padre in risposta ai propri sintomi fisici, aspetto favorente un processo di modellamento o imitazione:

“Papà, nel momento in cui non si sentiva bene, per esempio a causa del reflusso gastrico, era terrorizzato dall’idea di andare a dormire per paura di morire nel sonno. Non riposava mai in posizione supina, ma sempre seduto sul poggiatesta del letto, come in uno stato di allarme. Gli unici momenti in cui lo vedevo felice erano a seguito di accertamenti medici andati bene, stato emotivo destinato a durare nel tempo sempre meno”.

Il paziente riferisce una totale incapacità di accettazione del rischio di malattia, relativizzando, malgrado le proprie competenze cognitive, ogni informazione che possa smentire tale timore. In termini di scopi sovrainvestiti, proprio come letteratura vuole, emergono: essere adeguatamente prudente e responsabile, non essere debole psico-fisicamente e non essere malato. Donatello sembra nutrire, nello stesso momento, sia credenze relative all’essere malato sia relative al non esserlo, oscillando tra stati mentali incompatibili fra loro.

Da segnalare la presenza di euristiche quali il confirmation bias (pregiudizio confirmatorio per cui vengono selezionate solamente le informazioni coerenti con il timore di malattia) e l’ancoraggio (tendenza a rimaner ancorato ad un giudizio iniziale, sviluppando correzioni solo a partire da esso).

Sebbene riferisca anche circoli viziosi che si reggono su sensazioni somatiche (palpaggi e controlli ripetuti), un ruolo centrale viene assunto da quelli che si autoalimentano da fatti esterni: ogni visita medica conduce inesorabilmente ad altri accertamenti, favorenti il rinforzo di credenze patogene sul proprio stato di salute generale. Risulta altrettanto facile immaginare quanti circoli viziosi possano attivarsi, sia relativi all’ansia generata dalla preoccupazione di poter esser malato, interpretata nelle sue manifestazioni somatiche come sintomo allarmante, sia in termini interpersonali: rassicurazioni minimizzanti da parte dei cari divengono ulteriormente lesive l’autostima e l’immagine di sé.

L’intervento psicoterapeutico1 tutt’ora in corso, confortato dal fatto che il paziente non abbia abbandonato la terapia come sempre avvenuto dopo poche sedute, si prefissa le seguenti fasi:

– Fase1: Assesment generale e cognitivo comportamentale;

– Fase 2: Condivisione del modello e costruzione della relazione terapeutica;

– Fase 3: Modulazione delle credenze disfunzionali alla base della sintomatologia;

– Fase 4: Accettazione del rischio di malattia e di debolezza;

– Fase 5: Prevenzione delle ricadute.

Le primissime fasi della terapia sono procedute con successo, rappresentando anche per il paziente una modalità per lui completamente nuova di comprendere ed affrontare il problema (comprensione della domanda, diagnosi differenziale, assesment specifico attraverso test, abc e diario dell’ansia e condivisione del modello).

Quello che sembrava un “tipico” caso d’ansia da malattia vede improvvisamente un suo completo stravolgimento. Durante l’ottava seduta il paziente giunge in studio estremamente scosso da una notizia: il secondo figlio, poco più che ventenne, a seguito di un controllo legato al riemergere di alcune piaghe nella bocca, è stato invitato ad approfondimenti al fine di scongiurare un quadro legato a malattie neoplastiche o autoimmuni.

Donatello, mettendo completamente da parte i timori connessi ad un proprio stato di salute, comincia ad esperire quello che secondo l’ottica CMT viene denominato “senso di colpa da slealtà o separazione”: il paziente non si consente di andare nella direzione dei propri scopi per non lasciare/tradire il figlio. Ecco come prendersi cura di sé diviene impossibile. Focalizzarsi sui propri bisogni e agire comportamenti funzionali al perseguimento di scopi sani rappresenta un imperdonabile tradimento, compromettendo l’idea stessa di essere un buon padre: “Come posso parlare delle mie scemenze quando mio figlio rischia qualcosa di estremamente reale? Non è giusto che io venga in terapia quando la mia famiglia vive questo tipo di situazione! Come potrei prendermi cura di me quando un mio caro rischia la vita? Che tipo di padre sarei? Sarebbe imperdonabile! Non riesco neanche a godermi un caffè al bar senza sentirmi terribilmente in colpa!”.

Il paziente sposta completamente il focus del problema presentato, costringendo il terapeuta a orientare la propria attenzione sul tema complesso della relazione, fattore fondamentale del buon esito della terapia.

Dall’ansia di malattia ci spostiamo nell’oceano dei sensi di colpa inconsci, attanaglianti il paziente in maniera totalizzante…

Come procedere?

                                                    

1 Perdighe C., Gragnani A., “Psicoterapia Cognitiva, comprendere e curare i disturbi mentali”, Raffaello Cortina Editore,

Milano, 2021.