La terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo Post-Traumatico da Stress

Nel trattamento del DPTS, la terapia cognitivo-comportamentale si focalizza sulle distorsioni cognitive (con lo scopo di correggerle), sui processi di appraisal, sulle intrusive memorie traumatiche (con lo scopo di estinguerle) e quindi sulla desensibilizzazione del paziente agli stimoli associati al trauma attraverso l’esposizione ripetuta (Connor e Butterfield 2003). E’ dunque un approccio che comprende la combinazione di più componenti e di seguito (e nei prossimi paragrafi) saranno presentate le principali.

Andrews e coll. (2003) rilevano come primo passo importante il prendere in considerazione il fatto che “il DPTS è un disturbo d’ansia caratterizzato da una persistente attivazione, con elevati livelli di paura correlati ai ricordi e agli stimoli che evocano il trauma”. Nelle persone che hanno vissuto un trauma, questo in genere si combina con una scarsa comprensione delle proprie reazioni psicologiche, determinando una condizione di vulnerabilità e scarso senso di controllo. Di conseguenza, è importante rivolgere le prime fasi di trattamento all’insegnamento di “strategie di gestione dell’attivazione e della sofferenza psicologica”, strategie che si riveleranno utili anche per affrontare il successivo processo di esposizione.

La gestione dell’ansia può essere realizzata, secondo Andrews e coll., con interventi rivolti agli ambiti fisico, cognitivo e comportamentale. Un buon punto di partenza sono le strategie a orientamento fisico dirette all’eccessiva attivazione delle reazioni allo stress traumatico, ad esempio: tecnica di controllo della respirazione, rilassamento muscolare progressivo, esercizio aerobico, consiglio di ridurre l’assunzione di stimolanti come caffeina e nicotina. Questi interventi aiutano la persona ad avere un primo controllo sui sintomi fisici di eccessiva attivazione e l’esperienza clinica rileva che spesso producono rapidi miglioramenti del senso di autoefficacia e aumenti delle aspettative di guarigione.

L’utilità delle strategie a orientamento cognitivo è evidenziata dalla “natura intrusiva dei ricordi traumatici e dalla tendenza di molti pazienti ad avere una ruminazione mentale dell’esperienza traumatica”, quindi “hanno lo scopo di dare al paziente un certo controllo sui suoi ricordi limitando il tempo che passa pensando all’evento e il malessere” associato. “Si deve fare attenzione a non trasmettere messaggi contraddittori, per esempio: sottolineare che pensare all’evento traumatico non è di per sé negativo, anzi che pensarci in modo controllato per periodi di tempo limitati è un’importante componente del trattamento; d’altra parte, i ricordi persistenti o che invadono spesso la mente contro la propria volontà, provocano grande malessere e impediscono al paziente di concentrarsi su altro”. Alcuni interventi cognitivi sono quindi diretti a: (1) “controllare la frequenza e la durata degli eventi cognitivi che creano sofferenza”, come l’arresto del pensiero e le tecniche di distrazione; (2) “modificare il contenuto, come l’uso di frasi di adattamento dirette a se stesso e il dialogo interno guidato”. “Interventi cognitivi più intensivi in genere sono necessari negli stadi successivi del trattamento”.

Sempre secondo Andrews e coll. (2003), “gli interventi comportamentali sono spesso… mirati a specifici bisogni del paziente”. Possono essere utili interventi di programmazione delle attività e strutturazione delle giornate del paziente e reinserimento sociale (come nel trattamento della depressione), in quanto spesso tra le reazioni allo stress traumatico vi sono il ritiro e l’isolamento sociale. Questo “significa incoraggiare a riprendere le normali attività quotidiane il più presto possibile dopo il trauma”, in quanto la “ripresa della normale routine aiuta l’individuo a riguadagnare un senso di struttura e controllo. Altri interventi comportamentali sono utili per problemi specifici come il sonno, le abilità comunicative e l’assertività”.

Donald Meichenbaum ha ideato lo Stress Inoculation Training (SIT), una psicoterapia cognitivo-comportamentale che si pone proprio l’obiettivo di favorire l’apprendimento di strategie di gestione dell’ansia e dello stress, e che consta di tre fasi (come riportato da Lo Iacono 2005):

1.    la concettualizzazione: a) informazione sullo stress; b) ristrutturazione delle idee errate sullo stress;

2.    acquisizione e prova delle abilità di fronteggiamento: a) problem solving; b) tecniche di rilassamento; c) alcune strategie cognitive, tra cui la ristrutturazione; d) autoaffermazioni positive, ossia preparare insieme al paziente dei ragionamenti da ripercorrere nei momenti critici e nelle fasi di esposizione alle situazioni ansiogene, “al posto dei pensieri automatici che inducono reazioni comportamentali ed affettive disfunzionali”;

3.    applicazione e richiamo delle abilità: a) prova immaginativa, in cui “il paziente immagina di accostarsi alle situazioni difficili, identifica i punti critici e li affronta efficacemente sul piano dell’immaginazione”; b) prova comportamentale, role-playing, modeling; c) esposizione graduale in vivo; d) prevenzione delle ricadute.

Specificatamente, nel trattamento del DPTS, “il SIT inizia con una prima fase psicoeducativa in cui si descrive al paziente lo sviluppo delle risposte d’ansia, si parla di condizionamento classico, stimoli ansiogeni e reazioni d’ansia”. Il terapeuta incoraggia il paziente “a identificare gli stimoli che suscitano in lui risposte di ansia ed esitamento […] e spiega che l’ansia si può esprimere con reazioni fisiologiche, pensieri e comportamenti. Il paziente apprende abilità per gestire tutte e tre le componenti dell’ansia. Impara varie tecniche di rilassamento […] che vengono combinate con approcci cognitivi” (es., arresto del pensiero, dialogo interno guidato) ed  è incoraggiato ad esercitarsi nell’applicazione di queste tecniche.

Dopo essersi esercitato nel far fronte alle reazioni fisiologiche e ai pensieri indesiderati, il paziente impara tecniche di ripetizione immaginativa e di role-playing per affrontare l’evitamento comportamentale esercitandosi ad utilizzare metodi di fronteggiamento nelle situazioni ansiogene (in quanto “le vittime di traumi tendono a generalizzare e a considerare pericolose molte situazioni”). Il terapeuta discute col paziente la differenza tra ansia adeguata e realistica e reazioni ansiose innescate da stimoli associati al trauma. Per affrontare i problemi di evitamento, bisogna incoraggiare il paziente a usare le sue abilità di fronteggiamento insieme alla procedura di stress inoculation, che consiste nel: 1) valutare obiettivamente la probabilità che l’evento traumatico si ripeta; 2) gestire la tendenza all’evitamento comportamentale; 3) controllare la tendenza all’autocritica e all’autosvalutazione; 4) eseguire i comportamenti temuti; 5) concedersi delle ricompense per i tentativi comportamentali e per l’impegno a seguire il protocollo.

Il terapeuta “deve analizzare il modo in cui ogni abilità di fronteggiamento può essere applicata per compiere con successo un determinato passo dello stress inoculation (es., usare il dialogo interno per controllare la tendenza all’autocritica)”; inoltre, può utilizzare il problem solving per incoraggiare il paziente, che dopo un trauma si sente confuso e impotente, “a prendere decisioni e ad agire per dominare i problemi” (Lo Iacono 2005).

Infine, “viene introdotto il concetto di gerarchia delle situazioni ansiogene, spiegando che le situazioni temute possono essere scomposte in piccoli passi. Il terapeuta aiuta il paziente a preparare le sue gerarchie di situazioni ansiogene; si utilizzano il role-playing, la ripetizione immaginativa e varie abilità di gestione dell’ansia. Prima della fine del trattamento, il terapeuta esamina le abilità di fronteggiamento del paziente e lo incoraggia a utilizzarle affinché l’evitamento non si consolidi” (Lo Iacono 2005).

Se da un lato sono pochi gli studi di efficacia del SIT nel trattamento del DPTS, dall’altro l’esperienza clinica suggerisce che la gestione dell’ansia è un passo importante per preparare le persone alla successiva terapia di esposizione (Andrews et al. 2003).

L’esposizione

All’inizio, i trattamenti di esposizione si basavano sul presupposto che la paura fosse acquisita e mantenuta dal condizionamento classico e operante degli stimoli correlati all’evento traumatico. Il concetto di estinzione, o abitudine, è stato utilizzato per spiegare la riduzione della paura conseguente all’esposizione prolungata agli stimoli traumatici. Più recentemente, Foa e Kozak (1986) hanno proposto il concetto di elaborazione emotiva per spiegare la riduzione dell’ansia durante l’esposizione. Gli autori sostengono che l’elaborazione di informazioni correttive produce cambiamenti nella rete dei ricordi traumatici, modificando le relazioni stimolo-risposta e il significato attribuito all’esperienza  (Andrews et al. 2003). 

Il nucleo della terapia di esposizione consiste appunto nell’aiutare il paziente a confrontarsi con gli stimoli temuti fino a che la paura diminuisce (Lo Iacono 2005). Nel trattamento della maggior parte dei disturbi d’ansia è generalmente accettato che l’esposizione in vivo è più efficace di quella per immagini. Nel DPTS, l’esposizione in vivo si utilizza per stimoli esterni (attività, luoghi, oggetti o persone) che provocano ansia in conseguenza del trauma. Tuttavia, nel caso del DPTS, essendo i ricordi traumatici il principale stimolo temuto, gran parte dell’esposizione è immaginativa, chiedendo alla persona di raccontare in dettaglio l’esperienza traumatica. Si chiede alla persona di riferire il suo livello d’ansia e sofferenza a intervalli regolari. Queste informazioni, insieme alle osservazioni del clinico, aiutano a modulare l’esposizione e indicano quando si verifica la riduzione dell’ansia (Andrews et al. 2003).

Vediamo più specificamente come si realizza l’intervento di esposizione, prendendo in considerazione l’approccio di Foa e Rothbaum (1998) e quello di Marks e coll. (1998), che hanno lo stesso protocollo, eccetto per il fatto che nel primo è previsto anche il riapprendimento della respirazione. In pratica, la terapia di esposizione implica delle sedute di esposizione immaginativa agli eventi traumatici, seguite da sedute di esposizione in vivo a stimoli associati al trauma privi di rischio ma fonti di sofferenza. Gli esercizi di esposizione sono organizzati gerarchicamente, dagli stimoli meno dolorosi a quelli più dolorosi. Nel caso dell’esposizione immaginativa, se vi sono più ricordi traumatici, si può stabilire una gerarchia di ricordi e cominciare l’esposizione partendo dal più facile da affrontare. Nel caso di eventi traumatici singoli, si può graduare l’esposizione consentendo al paziente, negli esercizi iniziali, di saltare le parti più disturbanti del ricordo, di tenere gli occhi aperti, mentre in seguito gli si chiederà di tenerli chiusi rendendo le immagini più vivide, di usare un tempo passato nel racconto, mentre in seguito gli si chiederà di raccontare al presente, di immaginare l’evento da lontano o su uno schermo televisivo. Dosando questi accorgimenti, il terapeuta riesce a mantenere il malessere e l’ansia a livelli sufficientemente intensi da rappresentare un obiettivo terapeutico, ma abbastanza bassi da poter essere controllati dando un senso di padronanza al paziente. Si chiede quindi al paziente di rivivere l’esperienza del trauma descrivendola ad alta voce, parlando in prima persona e al tempo presente, con gli occhi chiusi e per 45-60 minuti (ossia un tempo sufficientemente lungo da ridurre l’ansia). Si incoraggia il paziente a usare il maggior numero possibile di particolari come odori, suoni, ecc., specialmente ricordi sensoriali, pensieri e stati d’’animo vissuti durante l’evento. Infatti, per essere terapeutica, l’esposizione al ricordo deve essere in grado di suscitare emozioni (chi soffre di DPTS, invece, si abitua a raccontare la propria storia in modo distaccato e privo di coinvolgimento emotivo). Il paziente descrive la vicenda per tre volte, con una particolare focalizzazione sugli aspetti dell’evento più disturbanti, mentre il terapeuta audioregistra. Dopo l’esposizione immaginativa, per facilitare l’integrazione cognitiva si discutono l’esperienza appena fatta e le intuizioni sul trauma avvenute durante l’esposizione. Infine, si assegna al paziente l’homework di ascoltare più volte (in genere un’ora al giorno) l’audioregistrazione per facilitare un’ulteriore abituazione.

Successivamente, viene realizzata l’esposizione in vivo, prima in seduta col terapeuta e poi da solo a casa (Stapleton et al. 2007; Lo Iacono 2005; Andrews et al. 2003). Paziente e terapeuta devono essere d’accordo su che cosa fare, su come farlo esattamente, dove, con quale frequenza, etc. Anche a casa è opportuno cominciare con una situazione relativamente facile, in modo che la prima prova si concluda con un rapido successo (Andrews et al. 2003).

Affinché l’esposizione sia efficace è necessario rispettare alcune linee guida (come riportato da Lo Iacono 2005):

a.    L’esposizione alla situazione deve durare “abbastanza a lungo da consentire all’ansia e alla sofferenza di ridursi”. Molti clinici, invece, tendono a interrompere l’esposizione ai primi segni di sofferenza nel paziente per proteggerlo; questo provoca il rischio di anticipare e anche di aggravare la risposta ansiosa, “rinforza l’evitamento del trauma e impedisce l’elaborazione emozionale” (che è ciò che accade nel DPTS cronico non trattato). Inizialmente al paziente deve “essere preannunciata e normalizzata” una certa dose di sofferenza. “Poiché il ricordo del trauma […] di per sé non è pericoloso, l’affetto associato al trauma diminuirà se gliene si darà la possibilità”. La persona deve “imparare che non ha motivo di temere i suoi ricordi del trauma. Il compito del terapeuta è aiutare il paziente a tollerare l’ansia all’interno di un ambiente sicuro, finché non diminuisce significativamente e/o non scompare”.

b.    “Incoraggiare il paziente a usare il maggior numero possibile di dettagli, soprattutto per le parti peggiori del trauma”. Alcuni clinici, invece, tendono a lasciare che il paziente sintetizzi o eviti di riferire completamente le parti peggiori” dell’evento.

c.    Procedere secondo il ritmo del paziente, soprattutto nella prima esposizione, dove probabilmente sperimenterà in modo intenso gli affetti connessi al trauma ed è quindi importante “evitare di insistere affinché il paziente rievochi i particolari”. Inoltre, il terapeuta deve tenere in considerazione le differenze individuali nella velocità di abituazione e nella risposta alle situazioni ansiogene. “Non bisogna passare a un nuovo ricordo traumatico o al livello successivo della gerarchia nell’esposizione in vivo se non c’è tempo sufficiente perché avvenga l’abituazione. Se l’ansia e la sofferenza del paziente non calano significativamente prima della fine della seduta, si deve dedicare del tempo ad aiutarlo a rilassarsi […] in modo che apprenda che può pensare al trauma e provare” emozioni negative intense “e ciò nonostante continuare a stare bene”.

d.    Il terapeuta deve regolare gli interventi “tenendo conto delle reazioni del paziente all’esposizione. Le reazioni problematiche tendono a ricadere in due estremi: il paziente ha difficoltà a coinvolgersi nel ricordo o a provare le emozioni connesse al trauma, oppure il paziente è così preso dal trauma che è sopraffatto dalle emozioni associate”. Nel primo caso il terapeuta può “cercare di coinvolgere il paziente nel ricordo […] sollecitandolo a rievocare più dettagli, facendo domande sulle emozioni e sui pensieri avuti durante il trauma, cercando di fare emergere i ricordi sensoriali. […] Durante le fasi di preparazione all’esposizione è importante incoraggiare i pazienti a concedersi di provare quelle emozioni e rispondere ai loro timori riguardo a ciò che succederà se proveranno a farlo”. Alla fine dell’esposizione è importante rinforzare questo messaggio e gli sforzi fatti dal paziente. La situazione opposta è quella in cui il paziente è troppo preso dal trauma e durante l’esposizione “fatica a ricordare che in quel momento non si trova realmente nella situazione traumatica” (es., coinvolgimento eccessivo con vividi flashback), condizione in cui “non è possibile modificare l’intreccio di ricordi traumatici”, come riferito da Andrews e coll. (2003). In questi casi, “il terapeuta deve riportare il paziente nel “qui ed ora”, per esempio dicendogli di aprire gli occhi, guardarsi intorno, toccare la sedia, descrivere la stanza, controllare la data, l’ora e il luogo, etc.”, ricordandogli che si trova in un posto sicuro, che il terapeuta è lì accanto a lui e che ciò che sta affrontando è soltanto un ricordo. In questo modo il paziente prende un po’ le distanze dall’esposizione e l’affetto associato al trauma è più gestibile (Lo Iacono 2005; Andrews et al. 2003).

Un trattamento di esposizione efficace riduce i ricordi intrusivi e diminuisce gli affetti dolorosi associati, permette alla persona traumatizzata di recuperare il controllo dei ricordi traumatici. Con l’esposizione il paziente viene messo di fronte a informazioni dolorose che preferirebbe evitare, e questo confronto è fondamentale per la terapia del trauma. E’ importante ricordare che in genere nella prima metà del trattamento i pazienti si sentono peggio (più ricordi intrusivi, riduzione di sonno, maggiore depressione, ecc.), ma questi problemi di solito si risolvono quando il trauma viene elaborato (Lo Iacono 2005).

Interventi di ristrutturazione cognitiva

Per i terapeuti cognitivisti i principali obiettivi consistono nell’identificare e correggere specifici schemi disfunzionali e aiutare il paziente a mettere in atto alternative più funzionali (Shalev 2001). In generale, come evidenziato da Lo Iacono (2005), le teorie cognitive dei disturbi emozionali si basano sul principio secondo cui esiste una connessione fra disturbi psicologici e disturbi del pensiero, pensieri automatici negativi e distorsioni interpretative. Le interpretazioni o i pensieri negativi derivano dall’attivazione di convinzioni negative immagazzinate nella memoria a lungo termine. “Lo scopo della psicoterapia cognitiva è modificare i pensieri e le convinzioni negative, e i relativi comportamenti associati, che mantengono i disturbi psicologici. […] i disturbi emozionali sono legati all’attivazione di schemi disfunzionali. Gli schemi sono strutture mnestiche che contengono  due tipi di informazioni: le convinzioni e gli assunti. Le convinzioni sono costrutti di base riguardanti sé e il mondo che hanno carattere assoluto e generale (es., “sono vulnerabile”) e che vengono tenuti per veri. Gli assunti, invece, sono relativi e specifici e sono la rappresentazione di relazioni specifiche fra eventi e valutazioni riferite a sé” (es., “non sono in grado di affrontare alcuno stress”). “Gli schemi disfunzionali che caratterizzano i disturbi emozionali sono più rigidi, inflessibili e definiti di quelli delle persone normali”. Inoltre, il contenuto dello schema è connesso in modo specifico al tipo di disturbo. Per esempio, “gli schemi dell’ansia riguardano convinzioni e assunti relativi al pericolo e all’incapacità di fronteggiare una situazione; nella depressione, invece, riguardano i temi della triade cognitiva”, ossia concetti negativi relativi a sé, al futuro e al mondo. (Lo Iacono 2005).

Per quanto riguarda più specificatamente il DPTS, Andrews e coll. (2003) sottolineano che la ristrutturazione cognitiva “ha lo scopo di aiutare il paziente a identificare e modificare i pensieri e le convinzioni disfunzionali sul mondo, sugli altri o su se stesso, che possono essere stati presenti già prima dell’evento traumatico, ma che spesso dipendono dall’influenza del trauma sulle visioni precedenti riguardo a temi fondamentali” quali fiducia negli altri, senso di sicurezza, fiducia in sé e valore personale. Sono stati identificati cinque tipi di cambiamento nella visione di sé e del mondo dovuti all’esperienza traumatica:

1.    l’esperienza traumatica può rafforzare una precedente visione negativa del sé e/o del mondo e degli altri come pericolosi (es., “questo dimostra che davvero non valgo nulla”);

2.    l’esperienza traumatica può scardinare precedenti convinzioni irrealistiche relative al sé di competenza e invulnerabilità e/o del mondo sempre sicuro, lasciando il paziente confuso e insicuro;

3.    giudizio negativo sul comportamento avuto durante l’evento traumatico (es., “avrei dovuto lottare”, “non posso più fidarmi di me stesso”);

4.    interpretazioni dei sintomi del DPTS (es. “non mi riprenderò mai”);

5.    opinioni sulle reazioni altrui (es., “pensano tutti che sia stata colpa mia”).

Si aiuta il paziente a identificare le convinzioni disfunzionali insorte o peggiorate in seguito all’evento traumatico e a considerarle come ipotesi e non come fatti. Inoltre, si realizzano la discussione e la confutazione delle convinzioni disfunzionali e la loro sostituzione con altre più realistiche e funzionali. “E’ meglio iniziare la ristrutturazione cognitiva durante l’esposizione: il terapeuta deve essere pronto a iniziare gli interventi di confutazione cognitiva quando durante l’esposizione emergono i pensieri e le convinzioni disfunzionali” (Ibidem).

Spesso i pazienti “cercano rassicurazioni irrealistiche, per esempio…sul fatto che non vivranno mai più un’esperienza simile. Il terapeuta lavora col paziente per arrivare a una valutazione realistica del rischio che l’evento si ripeta e dell’entità dei suoi effetti, contrastando la tendenza a illudersi della totale assenza di pericolo, a sopravvalutare la probabilità di un evento temuto e a esagerarne le conseguenze negative. […] Il terapeuta deve anche aiutare il paziente a concentrarsi sui pochi aspetti positivi: è sopravvissuto, si sta riprendendo ed ha appreso alcune tecniche che lo aiuteranno a stare meglio” nella sua vita in generale (Andrews et al. 2003).

Un esempio di trattamento cognitivo al DPTS è la Terapia di elaborazione cognitiva (CPT), sviluppata da Resick e Mechanic (1995), che, come riferito da Lo Iacono (2005), “mira ad alleviare il DPTS e i disturbi emozionali aiutando il paziente ad elaborare il trauma in modo completo, ad accettare che è accaduto e ad adattare gli schemi esistenti per includervi le nuove informazioni. Un punto focale della terapia è l’identificazione e modificazione degli stuck poin” (“punti d’arresto”), ossia le aree di elaborazione incompleta. Gli stuck point spesso si manifestano sotto forma di distorsioni cognitive, come la negazione (es., “non si è trattato veramente di uno stupro”), l’autobiasimo (es., “me la sono cercata perché ho bevuto troppo”) e l’ipergeneralizzazione (es,., “tutti gli uomini sono pericolosi”). La valutazione degli stuck point dura per tutto il processo terapeutico e si concentra principalmente nella parte centrale del trattamento”. Sono diverse le situazioni che possono portare al formarsi degli stuck point: (1) quando “il trauma entra in conflitto con gli schemi preesistenti” (es., in una persona aggredita da un conoscente si può formare uno stuck point relativo alla fiducia); (2) “quando altre persone inculcano nella vittima informazioni conflittuali (es., la biasimano per il trauma che ha subito)”; (3) quando il paziente è predisposto a utilizzare l’evitamento come strategia difensiva; (4) quando non è in grado di elaborare l’evento perché gli appare del tutto estraneo e quindi non possiede degli schemi validi in cui classificarlo. “Per favorire l’elaborazione del trauma, la CPT utilizza l’informazione, l’esposizione e mezzi di ristrutturazione cognitiva. Il terapeuta fornisce informazioni sul DPTS e dimostra la relazione esistente fra pensieri ed emozioni. Gli stuck point vengono individuati sollecitando i ricordi del trauma con gli affetti connessi. Quindi, le convinzioni erronee o conflittuali vengono messe in discussione e risolte. Il terapeuta si concentra sugli effetti del trauma in cinque aree di funzionamento […] sicurezza, fiducia, potere, autostima e intimità”, realizzando una ristrutturazione cognitiva in riferimento a questi temi principali (Andrews et al. 2003; Lo Iacono 2005).

Terapia di Ripetizione Immaginativa

La Terapia di Ripetizione Immaginativa (Imagery Rehearsal Therapy, IRT), ideata da Barry James Krakow, è un nuovo approccio terapeutico cognitivo-comportamentale per il trattamento degli incubi e dell’insonnia, sintomi frequenti nelle persone con DPTS, ma che solo raramente vengono trattati in modo diretto e specifico (Krakow et al. 2001; Tucker 2001). Nella IRT si incoraggia il paziente a “cambiare l’incubo in qualsiasi modo egli desideri” e poi a ripetere il “nuovo sogno” da sveglio (Krakow, Johnston et al. 2001).

Nella fase iniziale della terapia, si danno al paziente informazioni sui sogni associati al trauma, specificando che (1) gli incubi possono essere controllati con successo trattandoli come abitudini o comportamenti appresi, (2) lavorare sulle immagini durante la veglia influenza gli incubi perché le cose a cui si pensa durante il giorno si associano a ciò che si sogna la notte, (3) è possibile cambiare gli incubi in nuove immagini positive, (4) ripetere la nuova immagine (“nuovo sogno”) mentre si è svegli riduce o elimina gli incubi. Il passo successivo consiste nell’insegnare metodi per sviluppare immagini mentali piacevoli (Lo Iacono 2005; Krakow, Hollifield et al. 2001). Dopo di che il paziente deve: 1) scegliere un incubo che ha avuto; 2) metterlo per iscritto identificando tutti i particolari; 3) provare a immaginarlo diverso (per es., nel finale) in modo da creare una nuova versione non angosciante; 4) ripassare mentalmente il nuovo sogno per 5-20 minuti ogni giorno finché non diminuisce significativamente la frequenza dell’incubo. Attraverso la ripetizione può, quindi, essere modificato il contenuto degli incubi (Lo Iacono 2005; Krakow, Hollifield et al. 2001).

Viene utilizzata anche la ristrutturazione cognitiva, perché in genere i pazienti con DPTS legano inestricabilmente gli incubi e il trauma, creando così un ostacolo al cambiamento. I pazienti sono quindi incoraggiati a tenere in scarsa considerazione il trauma passato e invece a considerare che “gli incubi che sono trauma-indotti possono diventare sostenuti dall’abitudine” (cioè, incubi come funzione non solo di esperienze traumatiche, ma anche di comportamenti appresi). Si insegna ai pazienti come gestire (mediante strumenti cognitivo-comportamentali) le immagini spiacevoli che possono svilupparsi mentre si stanno esercitando nelle immagini piacevoli o nel “nuovo sogno”.

Altre indicazioni importanti sono: (a) le descrizioni delle esperienze traumatiche e del contenuto traumatico degli incubi devono essere scoraggiate per tutta la durata del programma per ridurre al minimo l’esposizione diretta; (b) inizialmente il paziente va istruito a selezionare i sogni disturbanti meno intensi e, se possibile, che non siano un replay o una “rimessa in scena” del trauma, per facilitare l’apprendimento della tecnica; (c) il paziente non deve lavorare su più di due “nuovi sogni” contemporaneamente durante ogni settimana (Krakow et al. 2001).

Alcuni studi hanno dimostrato che questo approccio breve è efficace nel diminuire (per frequenza e intensità) gli incubi, migliorare la qualità del sonno, ridurre la gravità globale dei sintomi del DPTS (pensieri intrusivi, evitamento e iper-arousal), della depressione e dell’ansia, e che tali miglioramenti si mantengono nel lungo termine (Connor e Butterfield 2003; Lo Iacono 2005; Moore e Krakow 2007; Forbes et al. 2003; Krakow, Hollifield et al. 2001).  

Prevenzione delle ricadute

Il trattamento cognitivo-comportamentale del DPTS deve prevedere interventi volti a prevenire le ricadute, frequenti soprattutto nella forma cronica. E’ importante avvertire e preparare il paziente di questa possibilità, in modo che possa prevenirle o almeno ridurne l’intensità e la durata. Andrews e coll. (2003) descrivono come segue le diverse fasi implicate nella prevenzione delle ricadute:

I.     Rendere il paziente consapevole del fatto che potrà talvolta stare ancora male nelle situazioni che gli ricordano l’evento traumatico, ma che si tratta di una reazione normale, almeno se il malessere non è troppo grave e non dura troppo.

II.   Identificare con il paziente le situazioni a rischio (es., circostanze, eventi o persone che ricordano l’evento; ricevere notizie di un evento simile; sperimentare altri eventi traumatici; periodi molto stressanti in famiglia o al lavoro).

III.Paziente e terapeuta elaborano insieme un piano scritto su come affrontare le situazioni rischiose e i sintomi iniziali di ricaduta: chi potrà chiamare, quali tecniche apprese dovrà utilizzare, quali autoistruzioni potrà usare (es., “Il ricordo mi turba, ma è normale. Sono in grado di resistere a questo malessere. Passerà. Mi devo concentrare sulle tecniche che ho imparato per controllare questa reazione e stare di nuovo bene presto”).