di Marzia Albanese

Sono fuori in questo momento, sul davanzale della finestra e mi riempio lentamente di neve: la cannuccia di paglia si è gelata nell’acqua e sapone, dei passeri saltellano attorno a me, rozzi uccelli che si azzuffano per una briciola di pane. E io tremo per la mia vita, per cui ho già tanto spesso tremato. Se uno di questi grassi passeri mi urta, cado giù dal davanzale, sulla striscia di cemento e i miei cocci li getteranno nella spazzatura.”

Sono queste le parole con cui si presenta la protagonista de “Il destino di una tazza senza manico”, il secondo dei “Racconti umoristici e satirici” di Heinrich Boll, premio Nobel per la letteratura nel 1972.

Protagonista del racconto è infatti lei: una vecchia tazza appartenuta a una famiglia che dopo averla utilizzata per ben venticinque anni la abbandona, a causa della rottura del suo manico, sul davanzale di una finestra, lontano dal tepore domestico dove non le resta che osservare, ormai guasta e inutile, la vita dei suoi padroni scorrere senza di lei.

Relegata dunque fuori, dietro vetri appannati, la tazza assiste nella notte di Natale allo scambio dei regali in cui vengono scartati oggetti nuovi, perfetti e desiderati.

Ne deriva un enorme dolore che decide di raccontare, insieme alla sua storia, a “quel lettore ancora incline a seguire i miei pensieri, dotato di tanto cuore da concedere anche ad una tazza senza manico saggezza di vita e sentimento di dolore”.

Figlia di “un piatto da dolci e una rispettabile vaschetta per il burro” questa tazza arriva a Roma avvolta in una carta da giornale, fra un pigiama e un asciugamano di spugna, per servire Julius, il figlio del padrone da poco impegnato nello studio dell’archeologia.

Per Julius, ragazzo attento e meticoloso, questa tazza diventa da subito indispensabile. Il ragazzo la porta sempre con sé, anche nelle pause lavorative, per versarvi dentro il caffè caldo del suo termos, finché non decide di regalarla a Diana, “una signorina che era venuta come lui a Roma per la stessa ragione” e che diventerà ben presto, sotto gli occhi attenti e felici della tazza, sua moglie.

La tazza passa insieme alla coppia anni molto belli durante i quali, essendo estremamente utile, si sente amata a tal punto che, anche quando i due decidono di trasferirsi in Germania, non vogliono assolutamente disfarsi di lei, poiché “io rappresentavo per loro una ricchezza preziosa, perché mi si poteva usare per bere acqua, acqua chiara e bella, come la si può bere alle fontane delle stazioni”.

Eppure, un giorno inavvertitamente il suo manico si rompe durante un trasloco, cambiando definitivamente e improvvisamente il suo destino. Ormai irrimediabilmente priva di manico, la tazza viene abbandonata sul davanzale della finestra e tutto appare mutare.

Improvvisamente, la tazza si rende infatti conto che per le persone per cui è stata utile e importante nelle mattine a colazione, nelle pause lavorative, nei momenti di crisi in cui girare ripetutamente il suo caffè indicava qualcosa che non andava…qualcosa “di troppo” a cui pensare, adesso è priva di valore: “è strano che tanto Diana che Julius abbiano dimenticato da quanto tempo io sia già con loro…permettono che mi geli qui fuori, che la mia vita sia messa in pericolo da un gatto randagio che gironzola.

Tuttavia, proprio quando l’umore è ormai a terra in preda ai vecchi ricordi e alle conseguenti ruminazioni, qualcosa, da dietro il vetro, attira la sua attenzione.

Sono le lacrime del piccolo Walter, che davanti ai rimproveri del padre Julius, che gli ha appena regalato un trenino rosso fiammante con cui poter giocare, indica invece la tazza fuori dalla finestra con cui poter fare le bolle di sapone, suo passatempo preferito.

Walter non vuole giocare con quel nuovo arrivato, lui vuole la tazza senza manico e Julius non riesce ad accettarlo, a comprenderlo. Perché preferire quella tazza inutile? È da ingrati, come gli urla a gran voce.

Come sono folli gli uomini” pensa la tazzina.

Ma ecco improvvisamente la finestra spalancarsi e le mani di Julius afferrare rabbiosamente la tazza terrorizzandola: “mi farà a pezzi? Bisogna essere una tazza per sapere come sono terribili quegli attimi quando si sente che si può venir scaraventati contro la parete o sul pavimento”, ma la mano di Julius viene fermata da Diana, che piangendo, lo blocca sconvolta. Anche lei ama quella tazzina. È la tazza che lui le ha regalato, molti anni prima, quando erano ancora due studenti. È lei che li ha fatti avvicinare, poco importa se non ha più un manico. È questo il suo enorme e vero valore.

La tazza ne rimane commossa e sconvolta, mentre tutto intorno appare cambiare:

Julius siede vicino alla stufa col giornale e Walter osserva, seduto sulle sue ginocchia, come acqua e sapone si sciolgano dentro di me: ha già tirato fuori la cannuccia e così io, senza manico, macchiata e vecchia, sto in mezzo alla stanza fra tante cose nuove fiammanti e mi sento estremamente fiera di essere stata io a riportare la pace, sebbene mi dovessi rimproverare di essere stata io quella che l’ha distrutta. Ma è colpa mia se Walter vuole più bene a me che al suo trenino nuovo?

E mente si guarda ancora intorno, felice e stupita, nota qualcosa di diverso sul viso di Julius. Quel Julius che troppe volte è mancato per lavoro, che già da anni è ormai pallido e stanco perché sempre preso dai suoi doveri e impegni per essere sempre ineccepibile, perfetto. Quel Julius che la tazza ha visto assorto molte mattine davanti al suo caffè, girato pensierosamente troppo a lungo. Proprio lui, “sembra che abbia capito qualcosa.”

Sì. Anche Julius lo ha capito: per essere amati non occorre essere perfetti.