di Chiara Mignogna

Williamsburg, New York. La vita imposta.
Berlino, Germania. La vita libera.
Cosa accomuna queste due località? Cosa lega l’una all’altra?
La scelta della libertà
I luoghi citati segnano e tracciano la vita della giovane protagonista di Unorthodox, mini- serie proposta da Netflix questa primavera.
Esty vissuta e poi scappata, per affermare se stessa e autodefinirsi, dalla sua comunità ebra ultraortodossa di Williamsburg, situata nel cuore di Brooklyn. Il viaggio verso Berlino rappresenta per Esty la possibilità di rinascere, di scoprire chi è e cosa può dare al mondo, dove niente è già scritto e imposto. Dove non ci sono schemi da seguire, ruoli in cui configurarsi, regole da accettare tout court.

La scelta di Esty implicherà la volontà di non sottostare più alle regole della sua società e della sua religione, estremamente rigida e ritualistica, agli occhi occidentali completamente anacronistica e agli occhi clinici con similitudini caratterizzanti il disturbo ossessivo- compulsivo, sia per ciò che concerne i suoi rituali sia per gli scopi sottesi.

Nella sua scelta, Esty riuscirà a superare sia il senso di colpa di non aderire più a ciò che le è sempre stato imposto, dai rituali al modo di vivere, sia alla sensazione di essere disprezzata a causa della sua condotta non combaciante con una donna del luogo.
Il paradosso? Farlo nella città che nel passato è stata simbolo di limitazione/violazione della libertà, dell’umanità, di vita.

Non solo per mano degli Egizi, ma anche dell’Inquisizione, dei cosacchi, dei Pogrom, dei nazisti.
Ad ogni generazione si sono rivoltati contro di noi.
Quando ci siamo fidati dei nostri amici e dei nostri nemici, Dio ci ha puniti.

Quando abbiamo provato a vestirci come loro e a parlare la loro lingua, Dio ci ha puniti. Quando ci dimentichiamo chi siamo, attiriamo le ire del Signore.
Ora accettiamo chi siamo, ed è questo l’unico modo per essere liberi.

È questo l’assetto culturale-religioso che muove la comunità di Williamsburg, con le sue regole e i precetti religiosi da osservare. Vietato smarrirsi e non seguire ciò che le Sacre scritture professano.
Un mondo rigido e chiuso, caratterizzato da rituali da ossequiare severamente, tali da plasmare la vita di chi ne fa parte, pena il senso di colpa derivante dalla sensazione di non sentirsi moralmente apposto e di “non adeguatezza” per non aver adempito a ciò che impone la tua stessa società.

La chiusura ultraortodossa ha insita in sé il concetto di non contaminazione; contaminazione da un mondo che nel corso dei secoli li ha traditi, sbeffeggiati, fino a pensare al loro sterminio. L’unico modo che hanno per sentirsi sicuri e non esposti ad alcuna minaccia, è quello di chiudersi in se stessi ed evitare aperture al mondo. Configurarsi con una loro lingua, l’yiddish, congiungersi in matrimoni combinati solo tra loro; una realtà in cui la differenza di genere è così netta come l’assegnazione dei ruoli. Gli uomini, vestiti da tipici indumenti e copricapi e con il loro segno distintivo, i payot (boccoli che gli contornano il viso), si dividono tra i loro affari e lo studio della Torah. Le donne invece senza istruzione e senza la possibilità di realizzarsi, obbligate ad abiti modici senza mai mostrare parti del loro corpo, gambe coperte da calze color carne e parrucche.

Sì, perché tra i tanti riti che accompagnano il matrimonio, le giovani donne sono tenute a rasare le loro chiome e a indossare parrucche fuori casa. Spiccano agli occhi i rituali, rigidamente osservati da ciascun personaggio, come toccare il mezuzah posto sullo stipite della porta e baciarsi le mani prima di entrare in una nuova stanza oppure la cucina e gli alimenti coperti rigorosamente con carta stagnola, durante la celebrazione della Pasqua ebraica, per evitare che il cibo venga contaminato. I contatti con l’esterno sono quasi nulli, non c’è accesso a internet né tantomeno la possibilità di avere uno smartphone, quasi per voler evitare di essere nuovamente contaminati e traditi dagli altri.

Esty sente di essere “diversa” ma totalmente inglobata in quella realtà. Fino ai 19 anni vive lì, nell’unica società che lei conosce e che ha potuto sperimentare. Trascorre tutta la sua

infanzia con i nonni paterni, tra un padre che a lei ha preferito l’alcol e una madre costretta ad allontanarsene.
Come da regola, Esty accetta il matrimonio con un giovane gioielliere di Williamsburg. Prima del matrimonio si sottopone al mikveh, bagno di purificazione in modo tale da essere pronta e pulita per il suo sposo.

Smette di seguire lezioni di pianoforte per diventare ciò che ci si aspetta da un’ebrea ortodossa, essere moglie ed essere madre.
Quello che dovrebbe rappresentare un momento di svolta nella vita di Esty, volto al matrimonio e alla procreazione, rappresenta invece un punto di rottura, da cui fuggire. Iniziata la vita coniugale, qualcosa non va nel verso giusto; nonostante l’intenzione di entrambi e nel rispetto dei comandamenti della Torah, Esty non riesce a vivere con serenità l’atto sessuale e di conseguenza a rimanere incinta.

È proprio in questo momento che qualcosa dentro di lei cambia.
L’idea di essere guasta, o il tentativo di farla sentir tale da parte di che le sta intorno, perché non combaciante con la figura che tutti avevano per lei, impone Esty a fare una scelta, la scelta. Ciò che pensava fossero i suoi scopi e i suoi obiettivi, cambiano radicalmente forma vivendo tutto ciò come una costrizione anziché come una volontà, non più atti intenzionali ma atti obbligati. L’incessante pressione da parte della suocera sulla mancanza di un concepimento nel primo anno di matrimonio, le lezioni da parte di un’educatrice sessuale al fine di far sentire il suo uomo come un re a letto, invece che suscitare colpa e senso di responsabilità nella nostra giovane protagonista, danno il via alla consapevolezza che quello non è il mondo che le appartiene, in cui riuscire a definire la sua identità.
Ora accettiamo chi siamo, ed è questo l’unico modo per essere liberi.
Durante lo Shabbat, Esty riesce a scappare a Berlino, grazie all’aiuto della sua ex insegnante di musica, unica fonte di liberazione e trasgressione durante la sua esistenza.

Berlino diventerà la città liberatrice di Esty.
Il suo arrivo nella città tedesca le permetterà di essere finalmente se stessa, scoprendo che no non è lei ad essere guasta, che il sesso può essere bello, che i capelli corti sono un’acconciatura trendy e che cantare di fronte a qualcuno non è disdicevole e provocatorio, ma solo un modo per essere stessi e capire chi si è.
Con l’ingresso al conservatorio, inizia la sua vita post o semplicemente la vita di Esty.