di Marzia Albanese

 

La tortura viene definita come un metodo di coercizione fisica e psicologica inflitta con lo scopo di punire o di estorcere informazioni e confessioni alla vittima o, in alcuni casi, per puro sadismo. Appare tuttavia difficile comprendere cosa sia la tortura solo tramite la sua definizione, perché ciò che non troviamo all’interno di queste poche parole, è un suo aspetto centrale: la tortura riduce al silenzio, nasconde, deumanizza, lasciando una scia impalpabile di dolore e gravi conseguenze.

A rendere visibili sul piccolo schermo le devastanti conseguenze psicologiche e sociali di questa pratica, attualmente utilizzata ancora in ben 141 paesi, è l’acclamata serie televisiva statunitense “The Handmaid’s Tale”, basata sull’omonimo romanzo della scrittrice canadese Margaret Atwood e vincitrice di numerosi premi e importanti riconoscimenti.

La protagonista è June e si presenta seduta sul bordo della finestra di una stanza buia, mentre parla allo spettatore fissando il vuoto:

Una sedia. Un tavolo. Una lampada. C’è una finestra con le tende bianche e il vetro è infrangibile, ma non perché temano che scappiamo, non arriveremmo lontano. Temono altre fughe, quelle che puoi aprirti dentro, se hai un oggetto tagliente o un lenzuolo attorcigliato e un lampadario. Io cerco di non pensare a quelle fughe. Ma il giorno della Cerimonia è difficile. Il mio nome è Difred, prima avevo un altro nome, ma adesso è proibito. Tante cose sono proibite ora.”

Siamo in un futuro dispotico dove il tasso di fertilità è calato radicalmente a causa dell’inquinamento ambientale. Dopo una guerra civile, il regime teocratico totalitario di Gilead prende il comando degli Stati Uniti d’America, che perdono così non soltanto il loro nome, ma anche la loro identità. In particolare, le donne vengono costrette improvvisamente a non lavorare, leggere e maneggiare denaro per essere solo un mezzo per generare la vita.

La nuova società viene allora organizzata in nuove classi sociali e le donne divise, in base al loro grado di fertilità, in tre caste: le “Ancelle”, donne ancora fertili che vengono assegnate alle famiglie elitarie per subire stupri rituali da parte del proprio “comandante” (di cui prendono il nome) con lo scopo di dargli dei figli; le “Marta”, donne sterili e quindi assegnate alle famiglie elitarie unicamente per occuparsi dei lavori domestici più umili; infine, le “Mogli”, appartenenti alle nobili famiglie di Gilead e, in quanto anch’esse sterili, relegate unicamente al ruolo di mogli e “madri” di quei bambini generati dalle ancelle con i loro mariti.

June è un’ancella, per questo il suo nome ora è Difred, in quanto appartenente al Comandante Fred e a sua moglie che nel giorno della cosiddetta “Cerimonia” la costringono a rapporti sessuali non protetti nel periodo di massima fertilità.

June prima, negli Stati Uniti d’America, era però una madre, una moglie, una lavoratrice. Dove è finito tutto questo?

Nel corso di tre bellissime stagioni (di cui è appena uscita la quarta) la protagonista cercherà, attraverso profumi, immagini e sensazioni, di rievocare i suoi ricordi del passato, mostrati allo spettatore attraverso emozionanti flashback, con lo scopo di mantenere vivo il ricordo di sé stessa. Di quella donna che non può più essere, spinta dal terrore di perderla per sempre tra torture e punizioni estreme ogni volta che la donna che è stata si riaffaccia, anche solo attraverso un desiderio, una volontà, un grido, un no come risposta al regime in cui è costretta.

Per chi si ribella al regime totalitario di Gilead sono infatti previste atroci punizioni corporali, dal taglio della lingua al cavare gli occhi. All’essere rinchiusi in una stanza o addirittura all’interno di una scatola di cemento. O ancora, appesi al “muro” come esempio di devianza, o colpevolizzati in cerchio, lapidati, costretti a mantenere posizioni improbabili per lungo tempo, finché il corpo non cede:

Ero solita pensare al mio corpo come a uno strumento per compiere la mia volontà. Potevo usarlo per correre, per far sì che succedesse ciò che mi era necessario. C’erano limiti ma il mio corpo era ciò non di meno che un tutt’uno con me, obbediva ai miei comandi. Ora non più.

Perché la tortura rende impotenti, delegittima a sé stessi il potere su sé stessi. Il corpo non è più che un pezzo di carne nelle mani di qualcuno che può farne ciò che vuole, smette di rispondere ai comandi di colui a cui appartiene, perché ne diventa solo un mero abitante sotto la sua pelle.

La tortura è infatti un’esperienza estrema in grado di provocare un ampio ventaglio di sofferenze fisiche e psicologiche. I sopravvissuti a questo tipo di trauma estremo presentano i più svariati sintomi: dalla ripetizione del trauma, al torpore emotivo; dalla dissociazione ai comportamenti di evitamento; E ancora, ipervigilanza, sintomi depressivi, senso di irreparabile, idee deliranti, allucinazioni uditive e visive; Inoltre, si riscontrano anche sintomi somatici, abuso di sostanze e alterazioni neurologiche.

In linea generale, le diagnosi psicopatologiche più frequentemente riscontrate nelle vittime di tortura o altro trattamento disumano e degradante sono il Disturbo da Stress Post-traumatico e la Depressione Maggiore. Ciò che però appare frequentissimo e soprattutto, trasversale ad ogni diagnosi, è una modifica durevole della personalità, caratterizzata da un atteggiamento ostile o diffidente nei confronti del mondo esterno, un ripiego sociale, sentimenti di vuoto o di perdita di speranza, l’impressione cronica di avere “i nervi a fior di pelle” come se si fosse sotto l’effetto di una minaccia permanente e, infine, un costante sentimento di distacco.

Quel distacco resosi necessario durante la tortura. La mente è infatti l’unica fuga concessa da questa agonia: va tenuta lontano, portata in salvo. Staccata dal corpo mutilato, sanguinante, martorizzato:

L’essere sani di mente è un patrimonio che accumulo come un tempo la gente accumulava il denaro. Lo metto da parte, per quando sarà il momento.

C’è infatti qualcosa che sembra accumunare una grande percentuale di vittime di tortura e violenza intenzionale: la dissociazione strutturale.

A partire dagli anni Novanta, Onno van der Hart, Ellert R.S. Nijenhuis e Kathy Steele sviluppano la “Teoria della Dissociazione Strutturale” per la quale la personalità del sopravvissuto a un trauma si divide in due parti: personalità apparentemente normale (ANP – Apparently Normal Personality) e personalità emotiva (EP – Emotional Personality). La prima, ANP, è la parte che si prende cura delle attività quotidiane (lavoro, relazioni, attività di svago) e che evita le memorie traumatiche; la seconda invece, la EP, è quella parte che rimane in qualche modo “bloccata” al momento in cui la persona ha subito il trauma e rappresenta la parte emotiva della personalità, quella che cerca di difendere e proteggere l’individuo dalle minacce e dai pericoli.

Quando le vittime di tortura non riescono a integrare l’esperienza traumatica assimilandola nella visione di sé e del mondo, attraverso la dissociazione “staccano” la EP dalla ANP, con lo scopo di preservare la propria salute mentale e guidare le azioni quotidiane, conducendo quindi una vita apparentemente “normale”:

È stata June. June è scappata, June ha cospirato con i terroristi, non Difred. Difred è stata rapita, Difred è priva di colpe. Difred non deve assumersi le colpe di June.”

E così June pian piano scompare, diventa quasi una minaccia la sua sensibile presenza, va tenuta lontana, lasciando Difred a vivere la quotidianità come fosse la norma, come se quel regime totalitario e punitivo fosse davvero “casa”, perché del resto “la normalità, diceva Zia Lydia, significa ciò a cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrare normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale.” Anche il dolore.

Eppure, ogni tanto June si riaffaccia, portando con sé quel forte senso di vuoto che scandisce le ore passate in compagnia di quel dolore:

“Sentirsi così vuota, daccapo, daccapo. Ascolto il mio cuore, onda su onda, onde salate e rosse, che segnano il tempo.

Ma sarà proprio tornare a sentire quel dolore la vera salvezza, il punto di incontro tra Difred e June, che solo insieme, grazie alla loro integrazione, possono combattere per quella libertà e autodeterminazione ormai lontane.

Perché, infondo, anche quando la protagonista si chiede “chi può ricordare il dolore una volta passato? Non ne resta altro che un’ombra” è sempre sua la voce che, poco dopo, le dà la giusta risposta: “il dolore ti segna, anche se non si vede.”

È un dialogo interno, perché June e Difred lo sanno entrambe molto bene: una lo ha sulla pelle, l’altra nel cuore.