di Marzia Albanese

Nasceva nella Boemia meridionale, in una casa molto umile, Hermann Kafka, padre di uno dei più celebri scrittori del nostro tempo.

Poco si sa di lui, eppure sembra quasi di vederlo, imponente e con la fronte crucciata mentre punta un dito verso di noi.

E’, infatti, un padre autoritario, invalidante ed estremamente critico quello che esce fuori dalle pagine di “Lettera al padre”, libro in cui Franz Kafka, ormai tranteseienne, lascia scorrere i suoi più intimi pensieri con una lettera per quell’uomo anaffettivo e severo che con la sua educazione lo ha costantemente posto in una irrisolvibile diatriba relazionale tra amore e odio.

L’autore ci prende per mano e ci porta a guardare in faccia, durante singoli episodi d’infanzia minuziosamente descritti quasi fossimo in una Imagery, quel bambino fragile e impotente nei confronti di un’autorità che lo zittisce, lo sminuisce e lo disprezza: “non posso credere che fosse così difficile indirizzarmi, non posso credere che una parola gentile, un tacito prendermi per mano, uno sguardo buono non avrebbero potuto ottenere da me quel che si voleva, ma tu sai trattare un bambino solo come tu stesso sei fatto, con forza, strepito, iracondia […] perché volevi fare di me un ragazzo forte e coraggioso

In particolare, cruciale è l’episodio in cui il piccolo Franz si lascia andare a un pianto incessante al quale il padre risponde prendendolo di peso e chiudendolo fuori dalla porta di casa per tutta la notte. E’ proprio a questo esatto momento che l’autore, ormai adulto, attribuisce l’origine di un “danno interiore” che si ripercuoterà su tutta la sua vita: “la tua minaccia -non una parola di replica!- e la relativa mano alzata mi accompagnano da sempre.

Nel descrivere la scena, Kafka rievoca le sensazioni e le emozioni che la caratterizzano e che tornano vivide e violente come se fosse ancora quel bambino sull’uscio di casa: il senso di colpa e l’inevitabilità della punizione; temi che sappiamo essere molto cari all’autore (basti pensare a “Il processo”) e che permeeranno non soltanto le sue opere, ma anche la sua intera esistenza.

Franz Kafka, infatti, nonostante fosse un ragazzo estremamente intelligente e dotato di un fine senso dell’umorismo, viveva nel costante timore di essere ritenuto mentalmente e/o fisicamente ripugnante e di non essere mai all’altezza di ogni situazione, davanti alla quale reagiva con l’incessante paura di poter sbagliare. Divenne ben presto timido e introverso: “era inevitabile. Io perdetti ogni fiducia nelle mie azioni. Ero incostante e incerto. Più crescevo e maggiori erano le prove che mi potevi opporre a dimostrazione della mia mancanza di valore”.

Eppure, nonostante lo sviluppo di tali convinzioni sotto l’influenza di un genitore svalutante e autoritario, durante l’intera lettura di questo libro non possiamo fare a meno di notare le continue oscillazioni dell’autore tra la ribellione e la compiacenza al padre traumatico, due delle modalità relazionali tipiche individuate dalla Control Mastery Theory nella relazione genitore-bambino, che assumono un ruolo centrale nello sviluppo delle credenze patogene. La prima, esprime la fedeltà del bambino ai propri bisogni a costo di opporsi ai comportamenti genitoriali, che porta il piccolo Franz a diventare “un bambino scontroso, disattento, disobbediente” e a fuggire da “tutto quello che ti ricordava anche solo lontanamente”; la seconda, invece, rappresenta il tentativo del bambino di obbedire ai moniti e agli insegnamenti espliciti dei genitori a scapito dei propri bisogni personali, che trova la sua massima espressione nelle seguenti parole: “sempre tutto il contrario non è stato il principio che ho seguito nei tuoi confronti, come credi e mi rimproveri. Al contrario, se ti avessi seguito meno saresti sicuramente più contento di me. Invece tutti i tuoi provvedimenti educativi hanno colpito nel segno; a nessuna mossa sono sfuggito e, così come sono, sono proprio il risultato della tua educazione e della mia docilità”.

Appare così sempre più evidente, pagina dopo pagina, come quello che rimanga di questo rapporto conflittuale non sia altro che un dolore maturato nel corso del tempo e sfociato nella convinzione di essere inadeguato; tale credenza si impossesserà talmente tanto della mente del piccolo Kafka, a tal punto che, in età adulta, ordinerà al suo amico di bruciare le sue opere, ritenendole prive di valore e a commentare nei suoi diari quello che diventerà invece uno dei suoi più celebri racconti (“La metamorfosi”) con parole sprezzanti, quasi fosse il padre a dirle: “è miserabile, non vale niente!”.

Tutto questo non può che porci davanti al quesito fondamentale che ci pone la psicoterapia: siamo davvero ciò che pensiamo di essere sulla base di come ci hanno fatto sentire?

Il successo ottenuto da Franz Kafka contrariamente ad ogni sua aspettativa, nonché a quella paterna, non può che rispondere a tutti quanti noi, suggerendoci che forse la verità che dovremmo dire al nostro genitore interiore è semplicemente che “[…] la tua mano e il mio materiale erano così diversi l’uno dall’altro”.