di Giulia Pelosi*

*Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Roma

Voglio ringraziare gli allievi Eleonora Bolletta e Mauro Belluardo del 4° anno del corso di specializzazione in

psicoterapia cognitiva gestito dall’Associazione Scuola di Psicoterapia Cognitiva sede di Ancona, per il contributo che hanno fornito alla realizzazione del presente lavoro

Questa fotografia è stata scattata da Enrico un infermiere di 32 anni strumentista di sala operatoria dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia. Lavora con le specialità di chirurgia d’urgenza; oncologica, urologica, vascolare e toracica. Il suo ospedale è stato convertito in presidio COVID19 e vive questo dramma in prima linea, ma ha deciso a fine turno, quando gliene rimane la forza, di immortalare e raccontare, attraverso i suoi scatti, “gli eroi” di cui tutti parlano adesso: i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari, gli addetti alle pulizie.

Attraverso la sua macchina fotografica cerca di “catturare la purezza dei loro gesti rassicuranti, la sincerità della loro vocazione, la compiacenza nel salvare e salvaguardare la vita dei loro pazienti…”

Le situazioni di emergenza, in particolare quelle più disastrose, determinano nei soggetti coinvolti, direttamente ed indirettamente, un sentimento di distruzione, smarrimento e turbamento emotivo.

Weiss, negli anni settanta, individuò tre tipi di situazioni stressanti in cui un individuo si può trovare:

  • la crisi, definita come una circostanza improvvisa e limitata nel tempo che minaccia il benessere dell’individuo che reagisce con un’attivazione di tipo emozionale;
  • la transizione, cioè un periodo di cambiamento durante il quale le certezze, le abitudini della persona sono soggette ad un mutamento;
  • il deficit, che è invece una condizione in cui l’individuo è investito da continue e pressanti richieste superiori alle sue capacità o forze attuali.

Questi tre tipi di situazioni possono presentarsi contemporaneamente, ed è esattamente ciò che accaduto al personale medico, infermieristico e a tutti gli operatori sanitari che sono stati fisicamente travolti e coinvolti in una lotta ad armi impari contro un virus feroce e sconosciuto che minaccia senza tregua la nostra esistenza da più di un mese: Il COVID-19.

La necessità di un sostegno psicologico appare imminente, ed un supporto cognitivo è a detta di molti esperti del settore di psicologia dell’emergenza, l’elemento centrale per le persone che vengono colpite contemporaneamente dai tre tipi di eventi stressanti.

Infatti, sia la crisi che la transizione che il deficit determinano importanti modificazioni a carico delle certezze individuali di ciò che Beck definì Dominio Personale ovvero tutto ciò per cui l’individuo manifesta interesse ed investimento personale, attributi fisici, autovalutazione, persone significative, oggetti tangibili, valori personali ecc.

Vivere eventi stressanti e potenzialmente traumatici ingenera nella persona un’informazione incompatibile con le sue precedenti concezioni: “Perché a me?”, “Cosa ho fatto per meritarlo?”, “Riuscirò a superare tutto questo?”.

Le risposte a domande come queste, che sono di tipo cognitivo ma scaturiscono dall’elaborazione emozionale di ciò che si è vissuto, possono determinare la guarigione dell’individuo e quindi una ristrutturazione dei suoi schemi cognitivi, oppure sfociare in quadri di insopportabile sofferenza psichica.

La risposta umana al pericolo è complessa e costituita da un sistema di reazioni fisiche e mentali che formano reazioni normali di natura adattiva che mettono in moto le risorse individuali per preparare la vittima a lottare.

La reazione traumatica subentra quando non è più possibile nessuna azione, quando la resistenza o la fuga non sono praticabili. Allora, il sistema di autodifesa viene sopraffatto, disorganizzato o annullato. Le situazioni traumatiche creano un disperato senso di alienazione, di abbandono ed interruzione del contatto con le relazioni, da quelle più intime a quelle più distanti, in modo particolare in questo preciso momento di isolamento sociale forzato, con una conseguente perdita di fiducia nei confronti di sé e degli altri.

Prima di iniziare ad offrire il mio personale supporto ad alcuni medici in prima linea nell’emergenza coronavirus, mi sono posta una serie di domande. Innanzitutto uno psicologo da dove inizia in una situazione d’emergenza? E poi, qual’ è l’obiettivo principale di un intervento psicologico?

La prima risposta che mi sono data è stata: dall’esserci. La seconda è che un intervento psicologico per un’emergenza si deve porre come obiettivo primario quello di tutelare la salute degli individui coinvolti che si tratti dei superstiti, soccorritori, e familiari delle vittime, e di diminuire le probabilità che possa verificarsi, come conseguenza dell’accaduto, l’insorgere di disturbi mentali o comunque di una sofferenza tale che possa incidere negativamente nella funzionalità delle persone.

In seguito mi sono interrogata su quali potessero essere nello specifico le reazioni psicologiche e/o psicopatologiche di infermieri, medici e personale paramedico ad un’esperienza nuova ed unica nella storia come quella di una pandemia.

Sebbene di norma l’operatore in emergenza sviluppi una soglia di tolleranza abbastanza alta nei confronti di situazioni che possono mettere a repentaglio il suo equilibrio psicologico, il rischio di essere seriamente coinvolto nell’ evento traumatico delle persone che soccorre ( la traumatizzazione vicaria) deve essere tenuto in seria considerazione.

Proprio per questo motivo bisogna prendere nota sia delle reazioni normali che delle reazioni patologiche del personale di soccorso medico.

I soccorritori delle vittime da coronavirus, vivono ormai da troppi giorni condizioni di stress elevatissimo, effettuando turni di lavoro incessanti in uno stato di ipervigilanza continua, seguendo un numero infinito di meticolosi rituali di vestizione e svestizione e sanificazione. Aggiungiamo a tutto questo anche le inadeguatezze logistiche degli ambienti destinati al soccorso, possibili conflitti interni all’organizzazione e tra soccorritori, le mancate ore di riposo, un’adeguata alimentazione, l’isolamento sociale familiare e la ripetuta esposizione a scene dolorose e drammatiche come l’abbandono ed il senso di solitudine delle vittime che vanno “consapevolemente” incontro alla morte senza la possibilità di ricevere l’ultimo saluto da parte dei lori affetti più cari ed un dignitoso rito funebre.

Sottoposti dunque a sfide diverse da quelle abituali, sia per la necessità di prendere decisioni importanti in tempi rapidissimi o di compiere scelte difficili e/o inadeguate al proprio ruolo, che per il numero elevato di pazienti gravi da dover curare simultaneamente e per la quantità impronunciabile di decessi a cui assistono, gli operatori sanitari, se non supportati in tempo, rischiano di sviluppare una serie di reazioni e sintomi pericolosi per la salute del singolo individuo e dell’équipe con la quale lavora.

Di seguito vengono riportate le varie fasi di un intervento di soccorso e le diverse reazioni fisiche e psicologiche ad esse correlate (Hartsougt, 1985), che vanno considerate come reazioni normali a situazioni anomale.

1.Fase di Allarme

La fase prende avvio dalla comunicazione di un evento critico grave, in cui bisogna intervenire. La comunicazione può monopolizzare l’attenzione dell’operatore, attivare fantasie di inadeguatezza ed incapacità e creare un senso di smarrimento e confusione, che in alcuni casi può arrivare anche ad uno stato di shock.
Questa fase possiamo intenderla come fase dell’impatto, ed è caratterizzata dallo stordimento iniziale e dall’ansia, dall’irritabilità e dall’irrequietezza che caratterizzano la maggior parte degli operatori. Non mancano anche soccorritori in cui si determina una reazione più o meno grave di tipo inibitorio.

In questa fase impattante i soccorritori possono attivare le seguenti reazioni:

  • reazioni fisiche (accelerazione del battito cardiaco, aumento pressorio, difficoltà respiratorie);
  • reazioni cognitive (disorientamento, difficoltà nel dare senso alle informazioni ricevute e nel comprendere la gravità dell’evento);
  • reazioni emozionali (ansia, stordimento, shock, paura per ciò che si incontrerà sulla scena dell’evento, inibizione in alcuni altri casi);
  • reazioni comportamentali (diminuzione dell’efficienza, aumento del livello di attivazione, difficoltà di comunicazione).

2.Fase di Mobilitazione

Superato l’impatto iniziale, in questa fase gli operatori si preparano all’azione.

L’agire aiuta a distendere la tensione e lo stato di allarme, e l’interazione, necessaria   per predisporre, avviare e coordinare i piani di intervento, favorisce il recupero dell’autocontrollo emozionale. In questa parte dell’intervento sono presenti ad un livello di intensità minore la maggior parte dei vissuti e delle reazioni della fase precedente, ai quali si associano però preziosi fattori di recupero dell’equilibrio: il trascorrere del tempo, il passaggio all’azione finalizzata e coordinata e l’interazione tra colleghi (abbiamo assistito anche al crescere di numerose chat di gruppo e pagine internet volte a scambiare informazioni di carattere scientifico ed organizzativo tra colleghi del sistema sanitario italiano ed internazionale).

3.Fase dell’Azione
In questa fase l’operatore è contrastato da momenti di gratificazione ed euforia relativi alle situazioni in cui riesce a prestare soccorso, a momenti di profonda delusione, colpa e paura scatenati dalle circostanze in cui l’intervento non risulta efficace, non è tempestivo o non è possibile per mancanza o inadeguatezza dei mezzi.

La fase dell’azione assume caratteristiche molto differenti anche in base alla sua durata che, potendo variare da alcune ore ad alcuni giorni fino a diverse settimane, determina differenti tipi e livelli di sintomi psicofisici legati all’esposizione traumatica.

Le diverse reazioni che più spesso si manifestano in questa fase si possono raccogliere nelle seguenti categorie:

  • reazioni fisiche (aumento del battito cardiaco, della pressione, della frequenza respiratoria, nausea, sudorazione, tremore, ecc.);
  • reazioni cognitive (difficoltà di memoria, disorientamento, confusione, perdita di obiettività, difficoltà di comprensione);
  • reazioni emozionali (senso di invulnerabilità, euforia, ansia, rabbia, tristezza, sconforto, apatia, assenza di sentimenti);
  • reazioni comportamentali (iperattività, facilità allo scontro verbale o fisico, aumento dell’uso di tabacco, alcol, farmaci, perdita di efficienza ed efficacia nelle azioni di soccorso, ecc.).
  1. Fase del “Lasciarsi Andare”

Questa fase è costituita due diversi tipi di contenuti emozionali: il primo, è costituito dal carico emotivo che durante la fase dell’azione è stato represso, inibito e negato, per dare spazio all’attività di soccorso, ed è caratterizzato prevalentemente da delusione, ansia e rabbia.

Il secondo consiste, invece, in un complesso di vissuti indotti dalle attese positive o negative rispetto al ritorno alla quotidianità.
Tra le reazioni legate alle attese positive o negative verso il ritorno alla quotidianità lavorativa e socio-affettiva possiamo ricordare tanto il desiderio continuo di tornare a casa e ad una routine quotidiana, quanto il timore della conflittualità con i familiari e con i colleghi, critici verso la scelta di prendere parte ai soccorsi, i sensi di colpa verso il partner ed i figli, ecc.

Reazioni patologiche alle situazioni di stress traumatico

I disturbi post-traumatici del personale coinvolto in situazioni di emergenza presentano, ovviamente, sovrapposizioni con gli stessi disturbi presenti nella popolazione generale, ma anche alcune specificità degne di particolare attenzione.
Il Disturbo Post-Traumatico più ampiamente studiato e conosciuto è il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), che, in estrema sintesi, è caratterizzato dalla compresenza, per almeno un mese, di sintomi intrusivi, di evitamento e/o di ottundimento e di aumentato arousal in seguito all’esposizione ad eventi traumatici di particolare gravità.

Per trauma il DSM IV-TR intende un’esperienza caratterizzata da entrambi gli elementi seguenti:
1) un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri;
2) la risposta della persona è stata la presenza di paura intensa, sentimenti di impotenza o orrore

I sintomi intrusivi più frequenti sono i seguenti:

  • Sogni o ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni
  • Agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando
  • Disagio psicologico intenso o reattività fisiologica intensa all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico

I sintomi di evitamento e/o di ottundimento più frequenti sono i seguenti:

  • Sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con il trauma
  • Sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma
  • Incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma
  • Riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative.
  • Sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri
  • Affettività ridotta
  • Sentimenti di diminuzione delle prospettive future

I sintomi di iperattivazione maggiormente frequenti sono i seguenti:

  • Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno
  • Irritabilità o scoppi di Rabbia
  • M., 38 anni, medico radiologo Osp. Di Roma “Non ci danno le protezioni necessarie, non ci tutelano, ci mandano al massacro e poi però ci chiamano eroi…mi sento preso in giro”. “Provo una rabbia cieca”
  • Difficoltà a concentrarsi:
  • F., 38 anni, medico radiologo Osp. Di Roma “Sono tesissimo e non riesco a prestare attenzione! Le informazioni sembrano passare nella mia mente senza fermarsi il tempo necessario per elaborarle”
  • Ipervigilanza,
  • G., 26 anni, infermiera Osp. Di Brescia: “Vedo la possibilità di contagio ovunque e mi crea ansia qualsiasi cosa, ho bisogno di tenere il controllo su tutto e tutti perché la minaccia è sempre dietro l’angolo e te la porti anche a casa.”
  • Esagerate risposte di allarme

Il Disturbo Acuto da Stress è un disturbo essenzialmente simile al Disturbo Post Traumatico, eccetto per il tempo di esistenza che lo caratterizza (deve manifestarsi entro quattro settimane dall’evento e durare da un minimo di due giorni ad un massimo di quattro settimane) e per il fatto che deve presentare molti più sintomi dissociativi.

Fra i disturbi dissociativi più comuni si segnalano:

  • Sensazione soggettiva di insensibilità, distacco, o assenza di reattività emozionale
  • Riduzione della consapevolezza dell’ambiente circostante (rimanere storditi)
  • Derealizzazione
  • , 26 anni, Infermeria, Osp. di Brescia: “Ciò che mi ha sussurato quel paziente prima di essere intubato mi risuona come un urlo nella testa”
  • Depersonalizzazione
  • , 32 anni, Medico corsista di medicina generale, Osp. di Roma: “Ad un certo punto mi sono sentita come un robot”…“Mentre spostavo il   paziente mi sembrava che le mani con i guanti fossero staccate dal mio corpo”
  • Amnesia dissociativa

Infine, esistono tutta una serie di sintomi che difficilmente possono essere indicati con una diagnosi che li rappresenti esaustivamente, ma che si rilevano problematiche con la maggior frequenza tra gli operatori dell’emergenza, siano essi professionisti o volontari:

  • Aumento dell’arousal con episodi di pavor nocturnus;
  • Disturbi della condotta,
  • Ritiro,
  • Agitazione psicomotoria,
  • Stanchezza cronica o apatia;
  • Senso di colpa:
  • B., 38 anni, medico radiologo Osp. Di Roma: “E se avessi infettato mia moglie? I miei bambini? Se succede è tutta colpa mia! Non me lo perdonerei mai!!”
  • M., 32 anni, Medico corsista medicina generale, Osp. Di Roma: “Forse ho sottovalutato il sintomo, dovevo fare più domande, dovevo essere più precisa nell’indagare…” e ancora… “ e se avessi tolto l’ambulanza a qualcuno a cui serviva di più, se avessi valutato male al telefono… se avessi fatto degli errori? Se avessi causato io la morte di qualcuno per una mia svista?”
  • Calo di appetito;
  • Calo della libido e disturbi sessuali;
  • Cinismo e senso di inutilità del proprio lavoro o della propria vita;
  • Sentimenti di estraneità dalla vita “normale” e sensazione che l’unica dimensione all’interno della quale ci si sente adeguati sia quella dell’emergenza, eventualmente unita alla volontà di eroismo a tutti i costi
  • Ideazione suicidaria
  • Abuso di sostanze (farmaci, alcol, stupefacenti);

Alcuni degli esempi sopra riportati sono frutto di informazioni da me raccolte in alcuni incontri di supporto via skype agli operatori sanitari che ne hanno fatto domanda.

A questi professionisti, va tutta la mia gratitudine non solo per ciò che fanno e per come lo fanno, ma perché grazie alla richiesta di aiuto si è superato un’atteggiamento che vede il soccorritore come una figura professionale sempre in grado di fronteggiare e/o superare l’impatto con qualsiasi evento traumatico, senza nessuna conseguenza sul piano psichico.

Considerati, purtroppo, una sorta di Supereroi queste figure si trovano in una condizione paradossale che è quella di dover “funzionare in modo sano” in una situazione in cui a tutti gli altri è concesso di “funzionare in modo anomalo” (Di Iorio 2018). Questo convincimento porta in molti casi a negare il proprio disagio impedendogli di prenderne atto, esprimerlo e di conseguenza chiedere sostegno.

Come e quando intervenire nell’emergenza

In psicologia dell’emergenza si parla di due tipi di interventi:

il primo, Defusing dall’inglese defuse cioè disinnescare, è un intervento breve solitamente condotto da uno psicologo dell’emergenza il quale attraverso colloqui di gruppo aiuta a rielaborare brevemente e collettivamente il significato dell’evento, ed a ridurre l’impatto emotivo di un avvenimento traumatico. Le persone che partecipano al colloquio hanno occasione di parlare, in maniera non giudicante e in un contesto relazionale protetto, dei fatti inerenti l’accaduto, dei propri pensieri e del proprio vissuto emotivo in relazione a quanto accaduto. Laddove svolto correttamente, può aiutare a diminuire o permettere di rimodulare l’intensità delle reazioni emotive generate da un’esperienza difficile, e contribuisce a rinforzare la rete di supporto sociale delle persone che hanno condiviso ciò che si è vissuto dal contatto con la drammaticità dell’evento

Il secondo, Debriefing invece, (Mitchell 1983), detto anche Critical Incident Stress Debriefing / Psychological Debriefing (CISD/PD) dovrebbe essere rivolto esclusivamente a gruppi relativamente omogenei di soccorritori (e quindi non di vittime), ed è composto da sette fasi distinte. In letteratura scientifica esiste un ampio dibattito sul problema del “timing” migliore per questo intervento. Di norma, si mette in atto tra le 24 e le 96 ore che seguono l’avvenimento, cioè quando l’esperienza delle persone coinvolte si è potuta strutturare psicologicamente ma non si è comunque ancora “cristallizzata”.

Questo intervento permette, attraverso lo scambio strutturato e “significante” dell’esperienza gruppale, di ridurre le possibili conseguenze negative di un avvenimento traumatico a livello psichico, come per esempio l’insorgere del Disturbo Post Traumatico da Stress ed altre sindromi collegate. Nel corso del lavoro attraverso le varie fasi si affrontano fatti, pensieri, emozioni e sintomi, al fine di proporre una prima rielaborazione e ristabilire una migliore comprensione dell’avvenimento, per permettere di reinserirlo nel corso della propria esistenza dandogli un significato possibilmente coerente e condiviso con gli altri membri del gruppo.

Generalmente, il Debriefing è preceduto da un incontro di Defusing, soprattutto con gli specialisti dell’aiuto, se svolto al termine del servizio in cui si è verificato l’evento critico, il Defusing viene detto Demobilization.

Ora, prendendo in considerazione l’attuale situazione contingente che vede tutti noi chiusi all’interno delle proprie mura domestiche, impossibilitati ad esercitare il nostro lavoro dal vivo e a creare situazioni gruppali causa il distanziamento sociale forzato per prevenire il contagio, lo psicologo e il terapeuta che intendono offrire supporto possono sentirsi spaesati e/o limitati nel poter utilizzare gli strumenti necessari ad un possibile intervento psicologico/terapeutico.

Il sostegno tramite mezzi virtuali infatti crea una serie di difficoltà: il setting non è quello ideale, l’empatia potrebbe non esser colta e molte tecniche come ad esempio l’Eyes Movement Desinsitization Reprocessing (EMDR) possono risultare complicate considerando la necessità di creare un contatto fisico “tapping” con la vittima o di poter fare eseguire i movimenti oculari per poter desensibilizzare, riprocessare e rielaborare il trauma.

In questo scenario, dunque è importante riuscire a trovare il “comodo nello scomodo”, adattandosi alla richiesta del singolo offrendo il meglio che si può attuare.

Sono possibili interventi mindfulness del protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) per la riduzione dello stress quali meditazione e pratiche sul respiro, sulle sensazioni del corpo, sui pensieri e sui suoni, tecniche di defusione cognitiva dell’Acceptance Committed Therapy (ACT), tecniche di Imagery come la pratica del “Posto Sicuro” utilizzato nelle prima fase dell’EMDR, e l’installazione di alcune risorse somatiche in grado di modulare l’arousal fornendo nell’immediato un senso di competenza e di resilienza nel soccorritore.

In questo momento probabilmente l’ascolto e la condivisione sono l’unico vero antidoto che possiamo offrire alla solitudine del dolore dei medici e di tutti gli operatori sanitari.

E in un mondo che, tutto ad un tratto appare così triste e buio, riuscire a trovare un modo, anche attraverso uno schermo, di trasmettere nuovamente fiducia, aiutando le persone a riconnettersi al centro dei loro valori e ad enfatizzare l’impegno che mettono nel dare la vita per la vita, rappresenta un meraviglioso fascio di luce ed un’opportunità, ancor più che professionale, umana.

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