di Marzia Albanese

Quando tutto ha avuto inizio noi non avevamo mai visto la guerra. Quando abbiamo sentito la parola ‘stupro’ per la prima volta non sapevamo affatto cosa significasse. Per noi era un concetto sconosciuto, ma poi abbiamo visto arrivare i soldati.”

Sono più di 18.000 le vittime di violenza sessuale nella Repubblica Democratica del Congo, soprannominato di conseguenza “il posto peggiore al mondo per essere una donna”.

La causa? I soldati delle milizie che si occupano delle miniere di materiali utili alle grandi industrie occidentali, che utilizzano lo stupro e la tortura come armi di guerra.

City of joy, crudo ma necessario documentario della regista Madeleine Gavin, testimonia le atroci violenze subite da numerose donne di svariati villaggi del Congo, seguendone il decorso psicologico all’interno della Città Della Gioia, centro istituito a Bukavu per le vittime di stupro e violenza di genere allo scopo di trasformarne il dolore in potere.

Grazie al lavoro del Dr. Denis Mukwege (premio Nobel per la pace nel 2018), Christine Shuler-Deschryver (attivista per i diritti umani) e della drammaturga Eve Ensler (autrice de “I monologhi della vagina”), ogni donna viene inserita all’interno di un percorso di gruppo della durata di sei mesi, nel corso dei quali l’evento traumatico potrà essere elaborato attraverso la condivisione delle violenze subite e la riscoperta della propria identità oltre a quella di “vittima”.

Attraverso veri e propri corsi di formazione centrati sulla leadership, queste donne riscopriranno sé stesse condividendo atroci dolori e mostrandosi vicendevolmente le indelebili cicatrici e facendoci assistere, allo stesso tempo, a una formidabile trasformazione della propria sofferenza in potenti forme di leadership per il proprio paese, all’urlo di: “noi sopravviveremo! Sopravviveremo per aiutare gli altri!”

Nell’osservare tutto questo, alternato ai violenti racconti delle loro storie, una domanda sorge spontanea nella mente dell’osservatore: ma come è possibile questo cambiamento?

Nel 2004, Tedeschi e Calhoun hanno osservato le reazioni delle persone traumatizzate maturando delle nuove considerazioni in merito a un’inaspettata tendenza di alcune di queste a intraprendere un cambiamento positivo, sviluppando un modello teorico oggi noto come “Crescita Post-traumatica” (PTG) intesa proprio come risultato di una lotta contro circostanze di vita altamente impegnative e sfidanti.

Proprio come accade nella Città Della Gioia, il trauma acquisisce un’altra faccia che promuove lo sviluppo di nuove prospettive personali e di crescita individuale. Ne consegue, pertanto, che la vita di queste persone va incontro a un rinnovato valore, che si rispecchierà in diversi ambiti: modificazione delle proprie priorità, maggior piacevolezza in situazioni precedentemente date per scontate, rapporti sociali più intimi e profondi, nascita di nuovi valori.

Ma il cuore di questo grande cambiamento risiede in qualcosa di molto più intuitivo ma allo stesso tempo complesso: a seguito della propria riuscita nel fronteggiare un evento traumatico, la persona può percepirsi come più competente, ridimensionando la propria definizione di sé in un modo più positivo e affrontando con maggiore self-efficacy gli ostacoli futuri.

Secondo il modello PTG, il processo di crescita non è infatti una diretta conseguenza del trauma ma è piuttosto la lotta individuale nel fare i conti con la nuova realtà imposta dall’evento traumatico. Ed è proprio qui che risiede il grande successo della Città Della Gioia che, supportando tutte queste donne fornendo loro utili strumenti di battaglia da utilizzare in questa difficile lotta, le porta finalmente a dirsi: “oggi ci vogliamo bene grazie al dolore che abbiamo sopportato”.