di Giulia Pelosi*

*Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma

Scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet , questo film francese ha tutta l’atmosfera di una vera e propria favola moderna ambientata a Parigi, che ha scaldato il mio cuore nella sua parte più remota ed infantile, offrendo dettagli suggestivi e deliziosi. La stessa colonna sonora (di Yann Tiersen) contribuisce ad intensificare lo stato d’animo dello spettatore in modo sempre più dolce ed empatico. Ma aldilà dei gusti personali e degli aspetti formali della pellicola, il favoloso mondo di Amélie rappresenta da un punto di vista clinico un valido strumento per comprendere specifici comportamenti e meccanismi delle persone con tratti di personalità evitante che tanto ricordano la tenera protagonista Amélie Poulain, interpretata dall’attrice Audrey Tautou .

La vita di Amélie è una vita semplice e genuina fatta di piccole cose. Ama rompere la crème brûlée con la punta del cucchiaino, immergere le dita delle mani in un sacco di legumi, far rimbalzare i sassi sul canale Saint Martin …si potrebbe dire una ragazza dall’attitudine mindfulness da questo punto di vista, attenta a cogliere a livello sensoriale tutte le informazioni provenienti dall’ambiente esterno.

Tutto quello che vediamo, a partire dal modo in cui viene percepita Parigi, è strettamente collegato agli interessi e gli stati d’animo della signorina Poulain.

Guardando attraverso i suoi occhi anche noi riusciamo ad entrare in un spazio parallelo fatto di minuzie, sfumature e piccoli piaceri, cullandoci in una totale armonia che fa apparire la vita “semplice e limpida”.

Ma in realtà quello che propone lo scrittore è un mondo buffo e fatato creato su misura per allontanare il dolore, dipingendo di magia le distanze fra le solitudini.

Amélie lavora come cameriera in un café di Montmartre, è introversa e molto sensibile, incapace di creare solidi legami con la gente che la circonda a causa dell’eccessivo imbarazzo e vergogna che sperimenta con la vicinanza dell’altro. Affetta da una anomalia cardiaca diagnosticata da piccola dal padre medico, con il quale è cresciuta dopo la precoce morte della madre (morta suicida), la piccola Amelie è cresciuta in un clima freddo (in questo contesto persino il suo pesce rosso tenta di continuo il suicidio), isolata e senza poter frequentare la scuola, destinata ad avere solo se stessa come compagna di giochi

A causa dell’impossibilità di sperimentarsi in tutte quelle abilità sociali ed affettive che derivano dall’entrare in contatto con gli altri, la bambina inizia ad evitare le relazioni e a crearsi un mondo di figure immaginarie che l’accompagneranno fino all’età adulta. L’esperienza fondamentale di un soggetto evitante è proprio quella di provare emotivamente un senso di estraneità, come se tutti gli altri condividessero mondi, situazioni ed atmosfere dalle quali la persona è esclusa, come se fosse al di fuori, e senza la chiave:

“Ebbene, dopo tutti questi anni l’unica che faccio fatica a delineare… è la ragazza con il bicchiere d’acqua… È al centro, eppure ne è fuori…” .

Alla dolorosa esperienza di non appartenenza si somma l’incapacità di dare significato alle esperienze relazionali e di rappresentarsi gli stati emotivi propri ed altrui.

Amélie si pone come spettatrice delle gioie della vita degli altri, piuttosto che vivere la sua in prima persona. Riesce a far immaginare ad un signore cieco dei particolari del mondo mentre cammina, a far innamorare una collega ipocondriaca con un cliente ossessionato dall’abbandono, a far credere ad una donna ferita dal proprio amato nel passato che in realtà quest’ultimo l’amava. L’impegnarsi in attività per gli altri la gratifica molto e la protegge dal contatto interpersonale. Il bisogno di una vita relazionale soddisfacente rimane inespresso, sperimentando senso di esclusione e solitudine. Il deficit di monitoraggio e di decentramento generano il timore della perdita di controllo che aumenta la probabilità di suscitare negli altri reazioni negative. L’attenzione è centrata sugli stati interni che non vengono regolati bensì temuti perché possono manifestare l’inadeguatezza. In Amélie è presente il desiderio di affetto e vicinanza ma è continuamente affiancato dal timore di essere rifiutata.

Il personaggio “terapeuta” Raymond Dufayel (il suo vicino di casa con le ossa di vetro) coglierà perfettamente nel segno la giovane ragazza dicendo “Lei preferisce immaginare un rapporto con qualcuno che non c’è, piuttosto che creare un legame con quelli che sono qui con lei” e sarà proprio lui che la porterà a riflettere sui limiti della propria vita, facendogli notare che se che da un lato aggiustare le vite degli altri le procura piacere, dall’altro l’allontana sempre più dai suoi problemi personali che nessuno potrà risolvere al posto suo. Tante sono le scene in cui poter cogliere le difficoltà della protagonista, una in particolare è esemplificativa del ciclo disfunzionale degli evitanti, la scena del bistrot dove la protagonista dopo una serie di peripezie, senza esporsi, riesce ad incontrare un ragazzo di cui si è invaghita. Amélie, in presenza del ragazzo, si nasconde dietro la vetrina del locale, negando di essere la ragazza che l’ha cercato, evita di svelarsi in un impaccio sempre più intenso. Tuttavia, accetterà la dolorosa sfida di voler conoscere davvero questa persona; e lo farà a modo suo, con modalità fantasiose che riportano lo spettatore ad un tempo puerile ed innocente.

Nonostante i traumi e i trascorsi familiari di distanza e trascuratezza emotiva, la protagonista riuscirà a trovare il suo posto nello spazio interpersonale lanciandosi in questa romantica storia sentimentale.

Nino, il suo alter ego maschile, è anch’esso impacciato ma è in grado di cogliere sensibilmente la problematica di Amélie, la quale, pian piano, scoprendo le sue risorse darà inizio ad un percorso dove la sua fantasia incontrerà finalmente la realtà: la vita vera.