Disturbo Distimico

con aspetti di Disturbo Passivo Aggressivo di Personalità

 

 Mara Romiti

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Riassunto

Il presente lavoro descrive il trattamento cognitivo comportamentale di una paziente di circa 30 anni con diagnosi di Distimia caratterizzata dalla presenza di tratti Passivo- Aggressivi di personalità. Particolare attenzione è stata attribuita all’identificazione degli scopi centrali che regolano le condotte disfunzionali della paziente e al conseguente razionale che è alla base dell’intervento terapeutico. La ricostruzione dei cicli interpersonali implicati nel disturbo e la chiara definizione degli obiettivi terapeutici hanno permesso alla paziente di avere un maggiore insight e un maggiore padroneggiamento degli stati depressivi e un miglioramento delle abilità sociali.

 

Summary

This paper describes the cognitive-behavioral treatment of a 30 years old patient with a diagnosis of Dysthymia , characterized by the presence of passive-aggressive personality traits. Particular attention was given to the identification of the central purposes that govern the dysfunctional conduct of the patient and the rational that is the basis of therapeutic intervention. The reconstruction of interpersonal cycles involved in the disturbance and the clear definition of therapeutic goals enabled the patient to have a greater insight and a greater mastery of depression and improved social skills.

 

Condizioni di vita attuali.

G. è  una ragazza di circa 30 anni, è nubile e vive con i genitori, entrambi pensionati. Frequenta fuori corso il biennio specialistico della facoltà di Architettura anche se stenta a dare gli esami. Ha una sorella più grande di lei di un anno, sposata con un figlio, a cui lei è molto legata. G. non ha molte amiche e durante il tempo libero coltiva hobbies solitari: ascolta la musica, legge, cucina. La sua vita sociale è limitata a brevi contatti con i compagni di corso, con cui condivide le pause e scambia gli appunti.

Invio e contesto della terapia.

G. mi è stata inviata da un comune conoscente in seguito alla sua richiesta di iniziare una consulenza psicologica. Al momento della nostra prima visita G. assumeva Diazepam (20 mg) e Entact (10 mg), prescritti da un neurologo da cui aveva appena fatto un drop out.(“non mi aveva capita, io continuavo a lamentarmi perché a causa della mia depressione non riesco a studiare e lui mi ha rimproverata e mi ha accusata di non riuscire a dare gli esami perché non mi impegno abbastanza”).

Anamnesi familiare ed individuale

G. mi racconta un’ infanzia felice, vissuta all’interno di una famiglia in cui non le mancano il calore dei genitori, in particolare della madre, e un legame molto forte con la sorella, maggiore di lei di un anno e sua principale confidente. L’educazione materna è caratterizzata dall’invito ad essere “una persona semplice, che non dà  nell’occhio e che si impegna a dare sempre il meglio per se stessa e per gli altri”.

Questo è l’esempio che i genitori danno alle figlie:  sono grandi lavoratori, non fanno mancare nulla alle figlie e queste ultime sono bambine e poi ragazze tranquille e bravissime a scuola.

Terminate le scuole medie G. si iscrive ad un Istituito Tecnico. In questo periodo G. inizia a manifestare un profondo disagio psicologico,  che lei ritiene essere eziologicamente legato a due eventi: l’interruzione del rapporto con le sue due migliori amiche, con cui aveva frequentato le scuole medie e la sua difficoltà a stringere amicizie nella nuova scuola.

L’interruzione del rapporto con le sue migliori amiche è legato ad un episodio in cui G. è stata da loro criticata per aver scelto una scuola “dove non si fa niente e dove non ti prepari a nulla” e di non aver preferito, come loro, un liceo. In quell’occasione  G. ha provato un’ intensa vergogna, ha iniziato a temere di essere giudicata come inconcludente e ha preferito allontanarle e non frequentarle più. Intimamente G. non era sicura della scelta scolastica: percepiva la sua scuola come poco professionalizzante ma l’ aveva scelta seguendo le orme tracciate l’anno prima dalla sorella.

A scuola G. non si trova bene: non riesce a integrarsi, a fare amicizie e si sente schernita per il suo aspetto fisico (non è molto magra e non si cura nell’aspetto rispetto alle coetanee) e per il profitto brillante. Tenta  più volte di intessere con le compagne un rapporto prestando loro appunti o passando loro i compiti, ma ciò non la aiuta a stringere amicizie, anzi  spesso sente di essere cercata solo al bisogno, maturando verso le compagne delle reazioni contrastanti di rabbia (non sono qui a farmi sfruttare, poi non mi cercate mai) e di colpa, motivo per cui a volte smette di aiutarle  a volte è disponibile (Mi sentivo cattiva alle superiori quando non aiutavo le mie amiche a fare i compiti e prendevano a causa mia brutti voti). Per quanto riguarda la relazione con i docenti, si sente ben valutata ma poco apprezzata , come se l’opinione comune che questi avessero di lei fosse stato : “G. è brava perché studia tanto, non perché intelligente o piena di qualità” .

G. inizia quindi a manifestare  un odio verso la scuola, che lei ritiene essere causa dei suoi problemi e sviluppa una sintomatologia ansioso depressiva, corredata da rituali ossessivi. Si rifugia in casa dove si sente più stimata e più tranquilla e inizia a porre una grande attenzione a non mescolare suoi  due ambienti di vita. Per far ciò distingue gli abiti che usa a scuola da quelli che indossa fuori scuola e sta molto attenta a evitarne un contatto diretto reciproco: gli abiti scolastici non devono mai entrare nel suo armadio per non contaminare quelli che usa fuori dalla scuola del malessere e del senso di inferiorità che prova quando è in classe. Soffre molto il suo isolamento ed è ancora arrabbiata per il fatto che la sua famiglia sembra non essersi accorta dei suoi comportamenti e del suo malessere. Quando si lamentava di non avere amiche, la madre, timida come lei,  le rispondeva di stare tranquilla: “hai la salute, vai bene a scuola , non ti manca nulla, hai una sorella che ti vuole bene e puoi uscire con lei”. La vita sociale di G. adolescente si limita perciò a uscite il sabato con la sorella e le amiche di quest’ultima.  Fin da piccola”, riferisce, “mi sono sempre sentita molto legata a mia sorella.  Non è colpa dei miei, che sono stati sempre giusti ed equi con entrambe, ma io avevo la sensazione che Francesca per loro fosse la migliore e ho sempre cercato di fare come lei. Ha segnato lei il percorso che ho voluto seguire anche io e ciò mi dava sicurezza. Inoltre il mio legame con mia sorella era come un andare avanti: avevo qualcuno con cui parlare e con cui uscire. Ma era sempre lei che riusciva ad andare avanti per prima perché sapeva sempre come gestire le cose, era più diplomatica di me e io volevo essere una sua copia, però così ho sbagliato, perché non ho lasciato spazio a me stessa”.

Durante questa fase della vita di G. accade un altro evento importante: una zia materna si ammala e muore, lasciando un figlio schizofrenica. La madre di G. inizia a occuparsi in prima persona di questo ragazzo: va a fargli le pulizie, lo accompagna alle visite, gestisce i suoi problemi. G. critica questo atteggiamento della madre: “proprio per la sua semplicità e per la sua timidezza, mia madre non sa dire di no. E’ una debole e la gente si approfitta di lei”.

G. termina le superiori con il massimo dei voti e si iscrive, come aveva già fatto la sorella alla facoltà di Architettura. La sua idea è quella di riscattarsi rispetto al passato e di dimostrare ai suoi professori e ai suoi vecchi compagni di avere molte più capacità rispetto a quanto loro avessero creduto.

Inizia a frequentare i corsi e durante il primo anno dà pochi esami. Dopo uno scoraggiamento iniziale si impegna maggiormente e in tre anni finisce gli esami. La sorella, presa la laurea di primo con alto rendimento, lascia l’università e inizia a lavorare. Contemporaneamente G. inizia a occuparsi della tesi e questa esperienza per lei è catastrofica: incontra molte difficoltà e inizia un confronto perdente con i colleghi di laboratorio che percepisce più svegli di lei, più preparati e più bravi.

G., presa la laurea con un voto molto basso, non è convinta di voler gli studi: ritiene di aver scelto una facoltà troppo difficile e inizia a dubitare di avere le capacità intellettive per poter concludere questo percorso, complici anche le difficoltà avute nella compilazione della tesi, da lei notevolmente amplificate tanto da considerarsi unica, tra i suoi colleghi, a non riuscire a capire le richieste dei professori.

Parte quindi per un soggiorno in Inghilterra dove rimarrà per quasi un anno per studiare la lingua. In questo periodo si mantiene lavorando come cameriera ed ha una prima, breve e unica relazione sentimentale con un ragazzo del posto. L’esperienza all’estero è molto importante per la vita sociale di G.: “Prima della laurea c’era solitudine, l’esterno lo vivevo attraverso mia sorella che mi raccontava cosa faceva il sabato sera. Dovevo studiare e mi ero disabituata alla vita sociale. In Inghilterra ho scoperto cosa vuol dire uscire con gli amici, essere apprezzati dagli altri, andare in un pub, farsi due risate”.

Al rientro in Italia G. decide di iscriversi di nuovo all’Università e concludere gli studi, provando però a cambiare indirizzo curricolare. La vita sociale di G. torna a essere molto povera: “dovevo studiare tanto per dimostrare a me stessa e agli altri che valevo: ho iniziato a non uscire per tre quattro settimane di fila, ero nevrotica, ma andava bene così.”. G. inizia a dare esami, ma in pochi mesi il suo rendimento  subisce un calo. Questo aspetto la confonde e inizia a dubitare della scelta universitaria, tanto da informarsi su altre facoltà che possano maggiormente essere attinenti a lei .