Conclusioni

Allo stato attuale non esistono protocolli specifici per il DAI, appoggiandosi, la cura di questo, su metodi in uso per altri disturbi del comportamento alimentare. Ciò è dovuto in parte all’assenza di una chiara classificazione diagnostica del DAI che viene identificato o con l’obesità o con la bulimia nervosa. L’accorpamento di tale disturbo ad altre categorie diagnostiche, non essendogli stata riconosciuta una sua chiara fisionomia, non consente di coglierne la reale complessità come di un disturbo a sé stante con sintomi e caratteristiche, anche di personalità, proprie. L’idea che si avvicina di più a questa ipotesi è forse il concetto proposto da Guidano (1987, 1991b) di “organizzazione di significato”, ma è necessario considerare altresì che la commistione tra anoressia nervosa, bulimia e obesità, pur illuminando su molte caratteristiche di personalità comuni che vanno oltre i sintomi manifesti, non consente, ancora, di cogliere quelle sfumature di significato che differenziano una “personalità” anoressica da una con obesità. Non condivido tra l’altro lo schiacciamento diagnostico del DAI all’interno dell’obesità, attribuendogli quelle caratteristiche di passività e rallentamento motorio che il DAI francamente non ha. Basta pensare alla fervida attivazione motoria ed emotiva che un’abbuffata richiede, sia essa soggettiva, oggettiva o semplice iperfagia e al “craving” che questa precede. Ci sono anche due altri concetti che allontanano la “personalità binge” da quella bulimica  e ancora di più da quella anoressica, ovvero la perdita di controllo e la paura del giudizio. Mentre il soggetto con anoressia e/o bulimia lotta per evitare di andare in contro a queste due minacce, il soggetto “Binge”nella gran parte dei casi si è già confrontato con la perdita di controllo, ormai totale, e con il giudizio: verso se stesso per il “discontrollo” che sa di avere, dagli altri per le critiche e le discriminazioni che riceve per non avere una taglia “small”. Il problema viene così a spostarsi sui sentimenti di disperazione, rabbia e vergogna per il disturbo stesso e le sue conseguenze. Ciò si differenzia radicalmente dall’egosintonia con cui è vissuto il sintomo anoressico e in parte anche quello bulimico, soprattutto per la funzione immediata (controllare il peso) e anche interpersonale, che tale sintomo spesso svolge all’interno dei rapporti familiari e sociali.

La società attuale, includendo anche una parte del mondo scientifico che di alimentazione si occupa, che è portata a considerare normale avere una taglia XXS ed abominevole avere anche una taglia M o L, mostra incoerenza e cecità nel considerare l’anoressia e la bulimia “disturbi mentali” e il BED, “categoria proposta per ulteriori studi” relegando tali soggetti al ruolo di buontemponi e non persone portatori di una complessa e sottovalutata sofferenza emotiva che non va affrontata intervenendo esclusivamente sul controllo alimentare. Inoltre i modelli proposti di CBT sottovalutano l’importanza delle tecniche comportamentali, limitando il loro intervento al solo ambito alimentare quando invece tecniche utilizzate per il disturbo alimentare (controllo degli stimoli, esposizione etc), potrebbero efficacemente utilizzarsi in altri ambiti della terapia con un soggetto “Binge Eater”, come il funzionamento interpersonale (ad.es. perché non utilizzare l’“esposizione” oltre che ai cibi anche ai giudizi altrui, alla vergogna, alla colpa, alla rabbia o il “controllo degli stimoli” non potrebbe riguardare oltre quelli alimentari anche quelli interpersonali?). Studi di efficacia dovrebbero comparare protocolli comportamentali complessi a più livelli (alimentare, interpersonale, emotivo) con protocolli cognitivo-comportamentali classici nel valutare la maggior efficacia di un intervento rispetto all’altro.

Un approccio terapeutico al Binge Eating potrebbe, infine, avvalersi oltre che di interventi classici di CBT, anche di strategie mutuate dalla terapia dialettico-comportamentale (M.Linehan 2001) come l’esposizione (secondo la riformulazione dialettico-comportamentale), l’uso di strategie dialettiche (ad es. fare l’avvocato del diavolo, uso della metafora, l’estensione) e le tecniche di “mindfullness” relativamente alla gestione dell’emotività (M. Linehan, 2001).