di Alessandra Lupo e Marzia Albanese

Tutto comincia in un pub dove Donny, barista con il sogno di diventare un comico di successo, offre una tazza di tè a Martha, inaspettata cliente in difficoltà che siede solitaria e in lacrime al suo bancone. Si apre così l’acclamata serie Netflix “Baby Reindeer”, con un gesto di gentilezza nei confronti di una sconosciuta che si rivelerà poi l’inizio di un incubo con toni ambivalenti: tra la tenerezza che spinge all’accudimento e il terrore che porta alla fuga.

Ma chi sono, realmente, i protagonisti di questo incontro? E cosa, in fondo, ha contribuito alla sua evoluzione?

Da una parte abbiamo Martha, giovane donna che appare fragile, ma che mostra sin da subito i suoi tratti patologici (come la costante menzogna e manipolazione) che la portano a sviluppare una vera e propria ossessione verso quel barista gentile incontrato nel pub. Comincia così a inviargli numerose email in cui messaggi confusi appaiono fondere il reale e l’immaginazione basata sui propri desideri, fino a quando il ragazzo diventa per lei la sua “piccola renna”, nomignolo che appartiene all’infanzia traumatica della donna in cui un piccolo peluche era l’unica e salvifica forma d’amore in una famiglia violenta.

Dall’altra parte abbiamo Donny, giovane uomo in cerca di affermazione nel mondo della stend up comedy nell’intento di affermare attraverso il successo il suo valore personale. Per lui, infatti, il palcoscenico non è solo l’inseguimento di un sogno, ma diventa quasi una rivalsa, l’unico tentativo possibile di prendersi cura di un’invisibilità profonda divenuta ormai identitaria. Senza quella fama tanto ambita, la sua persona è solo l’espressione di una mediocre vita: “tu sei disposto a fare qualunque cosa […] perché la fama ingloba anche il giudizio, giusto? E io ho temuto il giudizio per tutta la vita. Per questo sognavo la fama, perché quando sei famoso le persone ti vedono così, famoso! Non pensano tutte le altre cose che io ho sempre temuto, tipo: quello lì è un perdente o una nullità, o un frocio del cazzo. Loro pensano: è quello che fa quella cosa, è quello divertente. E io volevo così tanto essere quello divertente.”

Proprio per questo, Donny è pronto a tutto nel suo percorso artistico: esibizioni fischiate, pochi spicci nel suo cappello e, esibizione dopo esibizione, più che risate porta a casa derisioni: “quando passi tanto tempo a ingoiare vergogna è molto difficile impedire che diventi parte di te.”

Così Donny, nel corso degli anni precedenti all’incontro con Martha è come se si preparasse a quell’incontro stesso, trovandosi continuamente a fare i conti con un mondo dal quale si sente quotidianamente rifiutato e dal quale verrà anche sfruttato per mano di un uomo dalla carriera importante che apparentemente sembra accorgersi di lui promettendogli lavoro e successo ma che in realtà lo avvicinerà per poterne abusare sessualmente in diverse occasioni senza che lui riesca ad allontanarsene: “e nel profondo di te sai che è sbagliato quello che ti fa fare. Ma ogni volta ti ripresenti alla sua porta, e inizi a riflettere: il rispetto che ho di me stesso è così fottutamente basso? O il mio desiderio di successo è così fottutamente grande che deciderò di tornare ripetutamente a casa di quest’uomo e lascerò che abusi di me per un piccolo briciolo di fama?”

Tutto questo ha reso Donny sempre più sprezzante verso sé stesso, accrescendo l’odio di sé e una costante autodistruzione e autopunizione che lo allontana da qualsiasi forma di possibile felicità, tra cui la relazione con una donna transessuale di cui profondamente innamorato: “Dovreste vederla. È la persona più bella che abbia mai conosciuto, e io non riuscivo ad amarla. E adesso lo capisco […] capisco perché ho rovinato tutto agendo in quella maniera: è perché amavo una cosa in questo mondo, più di quanto amassi lei. E sapete cos’era quella cosa? Odiare me stesso. Lo adoro. Ne sono dipendente, e non conosco nient’altro. Perché Dio non voglia che corra mai un rischio nella mia vita: il rischio di essere felice. Ed è per questo che ho rovinato tutto con lei. Perché odiavo me stesso molto più di quanto amassi lei.”

E, ancora, tutte queste terribili esperienze hanno reso Donny di conseguenza ipersensibile ai destini fragili come il suo, come quello di Martha: “La mia autostima è così basa che ho lasciato entrare questa stronza pazza nella mia vita. Lavoro in un pub, sapete, e un giorno le ho offerto una tazza di tè. Piangeva e volevo tirarle un po’ su il morale ma lei ha iniziato a presentarsi ripetutamente ogni giorno, e sapevo che si stava affezionando. Ma io ho continuato a farlo per soddisfare il mio stupido bisogno di attenzioni.

La serie è un susseguirsi di diversi quadri psicopatologici complessi e di svariati temi legati alla salute mentale: stalking, trauma, abuso e dipendenza. Per questo, vedendo la serie lo spettatore non può che provare diverse emozioni contrastanti nei confronti dei protagonisti: tutto cambia con un cambio di prospettiva della storia presentata ed è forse questa la più grande forza di questa serie televisiva.

Passiamo dalla paura, all’angoscia, alla rabbia…e ci sembra quasi di sentire il fiato di Martha sul nostro collo. Ma anche noi, a volte sfioriamo quella tenerezza, che appare così assurda, ma che è in realtà rivolta a questi destini dei due protagonisti che sembrano a un certo punto fondersi in una sofferenza comune che li lega e che è possibile riconoscere spesso nella sintomatologia delle persone abusate e gravemente traumatizzate. Perché, come spiega lo stesso Donny nel suo monologo della penultima puntata: “Vedete, l’abuso ti porta a questo. Ecco, mi ha fatto diventare una carta moschicida per tutti gli svitati che esistono, una ferita aperta pronta da annusare.

E chissà che anche la serie stessa, non sia un altro tentativo di elaborazione degli abusi subiti: fa riflettere che l’attore protagonista Richard Gadd sia la reale vittima della storia portata sul piccolo schermo, mettendosi a nudo come nel suo monologo a teatro ma arrivando ad ancora più pubblico. Più occhi? Più orecchie? Più cuori?

Così “Baby Reindeer” sembra non essere solo una grande serie, ma anche uno spioncino sulla vita vera dell’attore che attraverso la condivisione dettagliata delle sue esperienze più traumatiche e delle sue vulnerabilità più profonde, analogamente a quanto si fa nella stanza di terapia, prova a liberarsi di tutto quel peso e di quelle maschere che solo l’abuso, nelle sue svariate forme, lascia in eredità fermando quei piedi in costante movimento, che altrimenti portano sempre e soltanto nella stessa direzione: “ho passato tutta la vita a scappare via. Quindi voglio smettere di scappare, perché non mi sento più le gambe ormai, sono stanco.”