Carlo Biagioli1

Riassunto

 

Carlo è un medico e psicoterapeuta, nel pieno sella sua vita privata e professionale. Senza particolari segnali di preavviso in poche ore si trova dall’altra parte della barricata, ovvero in un letto d’ospedale con un’emiparesi causata da un danno cerebrovascolare. Qui racconta la malattia, l’ospedalizzazione e la riabilitazione, mettendo in luce la difficoltà di trovare un equilibrio tra disperazione, speranze non fondate e una accettazione del cambiamento, che sia rassegnazione e una rinuncia “eccessiva”, ovvero rinuncia anche a scopi ancora raggiungibili.

Parole chiave: malattia, disabilità, vissuto psicologico

 

“Infarto nel territorio dell’arteria carotide interna destra e stenosi carotidea da possibile dissecazione bilaterale, in paziente con ipertensione arteriosa essenziale”.

È lunedì 4 dicembre, sono a studio ma già c’è aria di vacanza, fra esattamente due settimane sarà il mio 45° compleanno e i festeggiamenti inizieranno forse già da stasera (spesso facciamo una novena di festeggiamenti per i vari compleanni della famiglia). Poi la settimana dopo sarà Natale e subito partiremo con gli amici per il viaggio in Egitto con crociera sul Nilo che è atteso da tre anni e si prevede meraviglioso, persino i ragazzi sono d’accordo e, quasi contenti torneremo subito dopo capo d’anno che viene fra tre settimane esatte anche lui di lunedì (4, 11,18,25 e 1 gennaio, come tutti gli anni). Da una settimana non sto bene, mi sento stanco e ho un forte mal di testa (in genere non ne soffro) e odo uno stantuffo pulsare dentro la testa. Ipotizzo trattarsi di influenza e dello  stress causatomi di recente, non tanto dalla Direzione del dipartimento che anzi mi dà alcune soddisfazioni e riconoscimenti quanto piuttosto  dall’incalzare delle prove del concorso con tutte le sozzerie che vi ruotano intorno Non mollare. Non è possibile ammalarsi e devo ad ogni costo tirare avanti fino alle vacanze . Tornato a casa da studio come al solito all’ora di cena mi misuro la pressione arteriosa che risulta essere 180/120 e decido a questo punto che sto male ed il giorno successivo prenderò i provvedimenti minimi necessari .Con il senno di poi molti diranno di avermi visto molto male in quei giorni e di  essersi preoccupati, Bella dirà di aver avuto strani negativi presentimenti, io, onestamente, non più del solito: l’umore è tutto sommato positivo  soprattutto in considerazione della stanchezza abissale, ma già si intravede Natale e le vacanza: credo che ci si può arrivare (e invece no!). Da un momento all’altro tutto o quasi cambierà, ma ora è tutto normale, consueto, banale(bellissimo, ma questo lo saprò solo dopo, quando tutto questo non ci sarà più e la banalità quotidiana sarà un ideale irraggiungibile. Sta per iniziare l’ultima notte in cui dormirò nel mio letto e prima ci sarà l’ultimo limoncello e l’ultima pipa. Addirittura passeranno mesi prima che queste abitudini mi manchino;perché durante il naufragio non c’è neppure il tempo per pensarci, i desideri sono dirottati su questioni molto più essenziali e corporee . Se adesso suonasse alla porta un assicuratore  che mi proponesse una polizza per garantire il mio futuro gli direi che non ci sono nuvole in vista, che tutto è solido, stabile, tranquillo, bello, che sono un uomo felice(ho una moglie meravigliosa e due ottimi figli) o perlomeno contento e che continuerò ad esserlo ancora a lungo. Anzi a ben guardare da un po’ di tempo sono anche assenti i consueti consolatori pensieri  di morte intesi come un cullarsi all’idea di non esserci più, senza sofferenza magari grazie ad un proiettile vacante(infatti, nei momenti dell’addormentamento e del risveglio spesso mi immaginavo l’omicidio di Marta Russo con me nella sua parte: il sole la vita, la giovinezza,la gioia e poi un istante dopo, tutto finito e il fiume di gente distratta intorno che continua a scorrere evitando il corpo a terra.

 La mattina di martedì 5 dicembre non vado a Montefiascone come avrei dovuto, non me la sento di stare lontano da Bella, forse si tratta della riattivazione del comportamento di attaccamento, caratteristico dell’animale in pericolo(i primi massi stanno cominciando a franare o meglio si stanno accumulando in un ansa dove il torrente fa un vortice a valle di una modesta strettoia e i mulinelli che si creano iniziano a lesionare l‘argine. Nonno Acker viene a dar man forte (poi ci vedremo ancora molte ore dopo).Tornato a casa alle solite 20,30, dichiaro di  stare male e che il giorno dopo non andrò al lavoro perché misurandomi la pressione arteriosa trovo ancora valori di 180/120 e onestamente mi allarmo.Il pensiero va subito al cuore ed alla possibilità di uno scompenso improvviso. Mi sembra di essere assolutamente premuroso e attento nei miei confronti: non mi si potrà dire che non mi sono curato (invece, lo si dirà e come)comunque sono andato a lavoro in condizioni molto peggiori e mi sembra che Bella faccia altrettanto: finché è materialmente possibile si va!  Con il concorso chiudo un ciclo e non amo lasciare le cose in sospeso, quindi cercherò a tutti i costi di farcela: Invece non ce la farò ed il costo sarà elevatissimo! intanto ho quasi smesso di bere (e questo se non è la causa di quanto successo dopo, era certamente un segnale allarmante. All’ora di cena di martedì 5 dicembre quando ancora tutto funzionava ed io ero, ancora per poco, Carlo Biagioli, a casa mia, con la mia famiglia, a metà di una settimana intensa e alla vigilia di un bel periodo di feste e viaggi, Ci sediamo nel consueto ordine con il TG1 acceso e i broccoletti ripassati, squisiti nel piatto si facevano gli scarsi resoconti della giornata, al solo scopo di parlarsi, un modo tacito di dirsi: siamo tutti qui, siamo raccolti e uniti, la giornata e la distanza tra noi è finita:la cena con tutte le interferenze è comunque un momento di ritrovata intimità:i genitori sono tornati a casa con le prede e i cuccioli gioiscono per il cibo e perché non abbiamo subito perdite e tutti sono rientrati per chiudere fuori  la notte infida. . Ma la giornata questa volta non è ancora finita e ci sarà un fuori programma sensazionale:una notte lunga e amara di telefonate, di sirene, di abbracci, di batticuori, di carezze sui capelli e di mani che si stringono, di paure e di speranze, di preghiere e di bestemmie come in un’altra notte di cinquant’anni fa a pochi passi da qui, una vera sorpresa che coinvolgerà tutti, come attori protagonisti,di qui a pochi minuti. La regista forse sta salendo le scale o forse è già qui seduta sul divano e si sta offendendo perché non la invitiamo a sedersi a tavola con noi, ma è abituata ad essere ospite indesiderata, allora viene e si siede al mio posto sulle mie ginocchia, confondendosi con me stesso, non siamo più due ma uno  solo.

Del resto ho da sempre immaginato il film del momento in cui mi sarebbe venuto un cedimento del cuore e sarebbero arrivati gli inutili soccorsi tra i ragazzi spaventati e l’affaccendarsi di Bella disperata. Ci penso da quando sono ragazzo e la morte l’ho sempre avvertita come una presenza discreta, nella porta accanto che si manifesterà improvvisa e del tutto inattesa in quel preciso momento.

Chissà perché da sempre mi aspettavo una fine come quella di papà, per infarto del miocardio, invece si stava preparando un’uscita rapida e indolore come quella di mamma per emorragia cerebrale; per non far torto a nessuno alla fine mi sono orientato per un infarto cerebrale.

Prima di cena mi ero per la prima volta allarmato seriamente, senza tuttavia fare diagnosi neppure orientativa, perché avevo tentato inutilmente di dire qualcosa a Giulia  senza riuscirci e avevo visto il terrore nei suoi occhi di fronte alla mia fragilità A questo punto finalmente ho pensato che fosse in corso un fatto cerebrale( indovinate quale sia la mia professione?Il pizzicagnolo direte voi, invece no! Faccio il medico delle malattie mentali che qualche relazione con il cervello per quanto sia   ce l’hanno pure| Poi, tranquillo di aver fatto il possibile aspetto sereno il ritorno di Bella, che ignora che quelle saranno le sue ultime ore di lavoro per molto, molto tempo  ed è completamente allo scuro di quanto sta per piombarle addosso. Ho sempre pensato che il numero di battiti a disposizione del cuore fosse limitato e che stessero per esaurirsi le scorte. Ero certo che sarebbe successo così, l’unico dubbio era quando? Più vicino all’età di mamma 34 anni o di papà, il doppio 68 o la media, vale a dire 50 e come sarebbero andate le cose in quegli attimi concitati? Sarebbe stato di giorno?,In casa o fuori? E chi sarebbe accorso o di notte, all’ora del lupo,? Quando si nasce , verso le tre del mattino,e io vi nacqui e si muore di più. Ci sarebbe stato il passaggio in ospedale? O tutto si sarebbe concluso tra le mura domestiche come per i miei? Questa prospettiva (la soluzione domestica) non mi era affatto sgradita perché consideravo molto penoso una lunga malattia con una vita ridotta ad essere un peso per gli altri. Mi consolava l’idea di andare via di fretta e senza dare troppo fastidio come avevo sempre vissuto. Poi in questo modo avrei evitato l’indementimento condizione che reputavo insopportabile al punto da stipulare patti con gli amici più cari perché in tal caso si occupassero di spicciarmi rapidamente, leggi o non leggi sull’eutanasia, al momento vigenti. Insomma non mi sentivo certo l’onnipotenza di un adolescente ma mi ritenevo in un periodo molto positivo sia per la professione che per l’economia e la salute: all’orizzonte non c’erano che le nuvole della vecchiaia , ma sufficientemente distanti da  poter essere ignorate(non sapevo che il fisico potesse invecchiare di 20 anni in 10 secondi). In fondo mi piacevo e stavo in pace con me stesso; in un’età della vita in cui si fanno i bilanci; i miei quadravano abbastanza:non potevo dire di aver sprecato l’esistenza ed anche gli errori commessi e le colpe gravi che pure  mi attribuivo riuscivo a guardarle con benevolenza. Le agende riportavano impegni per i prossimi due anni ma si trattava di cose, come l’insegnamento che faccio senza stress e che mi danno molta soddisfazione e riconoscimenti in tutti i sensi. I figli crescevano e presto non avrebbero più avuto bisogno di noi (missione compiuta!) e poi il riposo dalla ASL, la pensione e fare solo le cose più gradite: stare in famiglia, i viaggi, Lo studio, la ricerca e lo scrivere, il viaggiare da soli con  Bella con una spider e ,magari, fare i nonni con una station wagon enorme. Potevo iniziare a scrivere una autobiografia, in quanto tutto quello che doveva succedere in una vita era successo e ormai non ci sarebbero state novità di rilievo a parte, le circostanze della morte (cui pensavo ogni giorno e ogni sera)che tuttavia, come detto aspettavo, rapida, precoce e imprevista, quindi, in una parola, ottima. Insomma da vero fortunato quale ritengo di essere. Ho sempre pensato che tale fortuna fosse una ricompensa dovuta al fatto che la sorte mi aveva strappato troppo presto la mia mamma e per questo avevo il buon diritto ad un equo indennizzo: ignoravo che stavo quasi per trasferire questo privilegio ai miei figli: dunque al contrario del solito non pensavo affatto alla possibilità di morire in tempi brevi. Come ogni anno mi ero ripromesso di fare un po’ di attività fisica ed eravamo anche andati a vedere una palestra a via Alessandria con Gigio, ma ancora non se ne era fatto nulla: un impegno in più non entrava nell’agenda. Sembrava impossibile potersi fermare e anche solo rallentare: il proseguo della vicenda dimostrerà che era una percezione sbagliata, ma la sosta non poteva che essere per motivi indipendenti dalla mia volontà. Scoprirò che il mondo, i vari miei mondi possono andare avanti anche senza di me, alcuni forse,con un po’ di affanno, altri addirittura meglio; non sono certo che tale scoperta mi abbia fatto tanto piacere. Io ci tenevo a credermi indispensabile e tendevo ad indurre negli altri dipendenza. Probabilmente perché pensavo che chi è indispensabile non resta solo perché gli altri ne hanno bisogno. Ero io ad avere bisogno di non essere lasciato e lo inducevo negli altri così che si aggrappassero a me ed io non restassi mai solo. Seguendo la regola:”Fatti in quattro per gli altri, non dire loro mai di no e in breve non potranno fare a meno di te, come di una droga; così non rischierai mai più di ritrovarti solo: il tuo bisogno lo puoi camuffare con il loro: i più non se ne accorgono e non fanno che ringraziarti, la quantità della droga è più importante della qualità”. Il mio è un accudimento coatto e non richiesto che ha lo scopo di legare soddisfacendo gli altrui bisogni. È un gioco confuso in cui dopo un po’ non si sa più chi ha bisogno dell’altro e chi accudisce e chi, invece, è accudito. La pericolosità del gioco e le conseguenze che produce dipendono se viene giocato in famiglia, con gli amici o con i colleghi al lavoro o con gli allievi in formazione o con i pazienti in terapia. Quando qualcuno riesce a sottrarsi io mi spavento e gioco ancora più pesantemente. Se riuscissi ad accudirmi da solo, a proteggermi e coccolarmi, forse avrei meno bisogno di tenere intrappolati gli altri. Ciò che sta per capitarmi aumenterà a dismisura il mio senso di dipendenza e dunque il bisogno degli altri e il timore che non sia degno delle loro cure e che le otterrò solo se diventerò indispensabile io per loro:gratis non mi spetta niente. Ritengo di essere stato amato nella vita o, perlomeno, questo è ciò che mi sono sempre raccontato se si esclude la prima esperienza con mamma, poi mi sembra di aver avuto sempre tanto affetto sicuro. Anche se non posso negare che ho sempre cercato di contare su di me e non dovermi mai affidare agli altri: sembra esserci una contraddizione, la cui soluzione  delegherò alla mia terapeuta: un bambino curatissimo che sviluppa un attaccamento evitante, a volte con manifestazioni di attaccamento resistente e ambivalente, ma certamente sempre insicuro per la serie “non contare sugli altri che prima o poi ti lasciano”. .Non ho mai trovata strana la mia propensione a pensare alla morte. Infatti,che il pensiero del morire  sia ricorrente negli umani ne è prova che nella prima preghiera che si impara da bambini rivolta alla madre di Dio, le si chiede espressamente di starci vicina adesso (che essendo il presente è di pronto consumo e non va mai sprecato e nell’ora della nostra morte (il che sta ad indicare che trattasi di momento impegnativo, tant’è che l’esame di maturità e il servizio militare non vengono minimamente accennati nella preghiera e per essi ci si raccomanda a Santi minori o stagionali, mentre alla mamma celeste per le cose decisive e la si invoca, come la mamma, anche a 90 e passa anni, di fronte alle prove più dure. Anch’io da piccolo quando cadevo pretendevo che fosse mamma a risollevarmi e a consolarmi; se lo faceva qualcun altro mi gettavo nuovamente in terra per non perdere la razione di coccole e attenzione che ritenevo spettarmi. Poi devo aver aspettato tanto fino a rassegnarmi e lasciarmi alzare da chissà chi, ma non mi è andata giù. Comunque è rimasta nella mia testa l’aspettativa che per avere le attenzioni degli altri un buon modo sia quello di stare male: questa è stata da sempre una mia modalità privilegiata di seduzione: non funziona malaccio e poi se non si ha di meglio si fa quel che si può (a fianco alla strategia di essere indispensabile, questa del mostrarsi debole è la seconda strategia per essere accudito. Torniamo a martedì, in quel tempo sospeso, calmo di una calma gravida di tensione che precede il disastro, l’attimo dal quale non si torna indietro, la discontinuità che ci farà diversi per sempre. Sto per vivere un momento topico della mia vita e sono distratto da mille banalità. La vita sta di fronte ad un bivio e tra poco cambierà definitivamente per tutti, anche per i ragazzi che saranno costretti a crescere più in fretta e per Bella che per un po’ dovrà affrontare un sacco di complicazioni come gestire un marito morente, senza la mia presenza: anche lei se la caverà egregiamente. Non che su questo ci fosse dubbio, ma un po’ di conforto glielo avrei dato volentieri. Intanto prepara l’ultima cena e richiama i figli alle solite attenzioni (quanta nostalgia per quella normalità quotidiana, per quella consumata familiarità tra noi quattro tra bisticci e affettuosità risapute. Essendo inverno è già notte e la scena è pronta per l’azione che tuttavia sarà molto più rapida e sobria del previsto. Una riservatezza che a posteriori non mi dispiace e che è in linea con una modalità sottodimensionata di stare al mondo e dunque anche di andarsene da esso. Una volta immaginata la morte immaginavo ovviamente anche la camera ardente con i Lewis 501 (che, ora non mi entrano più e dunque tutto va rimandato a fra una taglia in meno) e una camicia azzurra e poi i funerali con tanta gente commossa, molti indifferenti e alcuni davvero soddisfatti a leccarsi i baffi. Lo scalpore che una morte suscita e che, si sa, inorgoglisce molto  il morto è direttamente proporzionale alla giovane età ed all’imprevedibilità dell’evento.

 Della cena non ho precisi ricordi e quanto racconterò in seguito ha come fonte i racconti degli altri mentre io beatamente dormivo, o comunque non mi accorgevo se mi stavo accorgendo di qualcosa: per intenderci provate a ricordarvi il momento esatto in cui ieri notte vi siete addormentati: il momento di discontinuità tra la veglia e il sonno che certamente c’è ma, non si riesce a cogliere. Non so come descrivere meglio il mio stato troppo  vivo non ero ma evidentemente neppure morto perché ad oggi sono ingrassato e non si è mai sentito che ad un morto gli sia sfuggita la bara e che si debba allargare. Dunque non ero morto, ma la mia soggettività era piuttosto smarrita e avevo perso il filo della mia narrazione interiore o meglio avevo cambiato mondo e stavo in quello dei sogni angosciosi di bambino in cui sei impotente in balia di forze maligne dipinte in un acquarello dove per la troppa acqua i colori si mischiano e si confondono e anche la propria ombra sembra il demonio, provi a gridare ma il suono non esce e tutto è immobile e muto, mentre mamma tarda a svegliarti con il suo rassicurante e forte abbraccio; oppure, più verosimilmente nonna con un lungo elenco di untuose pietanze tra cui devi scegliere il tuo pranzo. Dodici millimetri oltre la biforcazione della carotide comune destra e dunque proprio all’inizio della carotide interna di destra c’è una piccola placca fibrocalcica che provoca un modesto restringimento  a valle del quale per il teorema di Bernoulli si creano vortici che via via danneggiano il rivestimento endoteliale del vaso sulla cui lesione da circa una settimana vanno via via aggregandosi delle piastrine che fanno esattamente il loro mestiere di tappabuchi. Ce ne sono trecentomila ogni centimetro cubico di sangue e si uniscono a formare un tappo quando c’è una fessura nella parete di un vaso e formano una massa (omogenea (trombo). Poiché l’endotelio sopra la placca era lievemente danneggiato per via di Bernoulli, loro hanno iniziato a tappare l’ipotetico buco; ma il buco non c’era e dunque piano piano hanno iniziato ad occludere il lume stesso del vaso più importante che porta il sangue al cervello che non può farne a meno per oltre tre minuti: dopo tale breve tempo, il tessuto cerebrale, sofisticato e delicato vanto della nostra specie diventa come una cicatrice nodosa sul ginocchio di un bambino. La circolazione era già particolarmente rallentata per l’andamento tortuoso delle mie arterie cerebrali(dono di famiglia che condivido con Lalli, tutte curve a gomito e saliscendi da gran premio della montagna e dunque passando lentamente le piastrine non resistono alla tentazione di fermarsi a fare comunella con le loro amiche e l’intoppo s’ingrossa(mal di testa e trombetta al centro del cranio). Il sangue passa  ancora, proprio grazie alla pressione altissima e nel punto di strettoia genera il soffio che sentivo in mezzo alla testa da vari giorni nella rete di piastrine s’impigliano anche dei globuli rossi passando a bassa velocità: insomma il sangue inizia a coagularsi(trombosi) dentro l’arteria. Nel tratto a valle dell’ostruzione la pressione è così bassa che si aprono per compensarla la arteria comunicante anteriore Il mio circolo di Willis ha fatto una bellissima figura compensando parzialmente l’ostruzione destra. si tenga presente che esso funziona in meno del 50% degli individui. Quindi questa è andata di lusso e ce la caviamo con un massiccio infarto nel territorio dell’arteria cerebrale media destra che origina dalla carotide interna proprio a livello dell’ostruzione. Dalla quantità del compenso della cerebrale posteriore si decide in questi istanti la mia sopravvivenza o la mia morte ma io ignoro tutto questo gioco di spinte e controspinte tra questi vasi comunicanti dentro il mio cervello il quale decide di andare un po’ in ferie e si mette in stand by per risparmiare risorse. Da questo momento passo dalla posizione di soggetto a quella di oggetto.

Improvvisamente mentre mangio dei broccoletti in padella mi blocco con uno sguardo spento e rivolto verso l’alto. Non provo alcun dolore ma resto immobile come un burattino con i fili tagliati, tuttavia resto seduto senza cadere (seduto come mamma mia e più o meno alla stessa ora: bene  così, andiamo avanti). “Sono certo, purtroppo, che il falso allarme di questa volta attenuerà il clamore e il cordoglio di quando sarà la volta buona davvero. Intanto però me la sono goduta in quasi piena consapevolezza invece che dalla tribuna come capita al trapassato vero e proprio che per il suo stato non può assaporare del tutto le celebrazioni in suo onore nell’avvenimento che lo vede protagonista. “Io cerco di non morire”. Pare che abbia solennemente dichiarato in attesa dell’ambulanza: “. Mi chiedo ora perché abbia detto una frase del genere, stante che non credo che il moribondo abbia alcun potere sull’esito della vicenda. E non era neppure una generica rassicurazione agli altri, come mi capiterà moltissimo nei giorni seguenti quando mi sforzerò di farmi vedere in forma e allegro da amici e colleghi. Peraltro tale frase indica che la possibilità di morire c’è e che io l’avverto. Quello che volevo ottenere mi è ben chiaro ed è ben altro: io volevo dire a loro (Bella e i ragazzi) che per nulla al mondo li avrei voluti lasciare e che se ciò fosse accaduto era del tutto contrario alla mia volontà. Questo perché ricordavo, figli che avevano perso i genitori, in particolare se suicidi, che avevano una scarsa idea di se stessi in quanto pensavano che non erano riusciti a trattenere i loro genitori, a dare un senso alla loro vita, Dunque mi preparo a morire ma voglio manifestare tutto il mio dissenso e non apparire in alcun modo collusivo con chi mi strappava a loro. Ricordai anche che non avevo ancora videoregistrato il messaggio che volevo lasciare a Gigio e Giulia e a cui pensavo da tempo, ma che non mi risolvevo mai a filmare per vergogna (mi sembrava di darmi troppa importanza).  Poi  A Bella  dico: ”…..ricorda…nella buona e nella cattiva sorte…….” Il che indica che ero in grado di riconoscerla e che mettevo le mani avanti sapendo che in pochi istanti mi stavo trasformando in un pesante invalido da accudire. Si allarmano tutti i presenti e Bella chiede  a Giulia di chiamare il 118 (sono le 20.17) e un minuto dopo alle 20.18 partirà l’ambulanza che arriverà a casa alle 20.25 per essere di ritorno al Pronto Soccorso del Policlinico dopo avermi dato un po’ di ossigeno a casa e nel trasporto alle 20.54 (complimenti meno di mezz’ora dall’alzata del telefono all’ospedale:iniziamo bene!!!) Bella parla con gli operatori del 118 e riceve l’indicazione di sdraiarmi per terra e nel farlo Gigio si accorge che non muovo il braccio e la gamba sinistra:è fatta sono un paralitico, per sempre!! Ho la sensazione dell’aria fresca di dicembre prima di salire in ambulanza (Gigio segue il gruppo che corre verso l’ambulanza portando la bombola dell’ossigeno) Si mette la sirena e poi via di corsa su per Corso Trieste verso il più vicino nosocomio che è il Policlinico Umberto I di Roma, dove sono nato quasi 45 anni fa ma allora i miei ci andarono a piedi, in piena notte invernale dopo che si erano rotte le acque a mamma, perché prima nonostante avesse forti dolori di pancia e il tempo fosse già scaduto, papà sosteneva che doveva trattarsi di qualcosa  che avevano mangiato, avendo mal di pancia anche lui; comunque poi a partorire fu mamma alle tre del mattino. Da allora è passata una vita (la mia) ed è di nuovo notte, di nuovo dicembre e, di nuovo Policlinico. La famiglia segue con la macchina dei nonni che sono arrivati insieme all’ambulanza, dove non può salire nessuno, tranne il protagonista e gli infermieri. Il Pronto soccorso mi  è ben noto ma non mi oriento facilmente, anche perché tutti vanno di fretta, come se ci fosse chissà quale urgenza. Io inizio a temere che domani non ce la farò ne ad essere a Viterbo né il pomeriggio a studio, almeno che non si sbrighino con gli esami che devo fare; ma qui ogni volta qui si aspettano le ore,per qualsiasi stupidaggine, figuriamoci poi di notte e se dovessero arrivare casi gravi:meglio prepararsi alla pazienza che è la virtù dei pazienti,l’essenza della loro identità insieme all’impotenza e alla dipendenza:un cocktail per me disgustoso ma ineludibile e allora via tracanniamo il calice che ci è stato preparato, chissà che poi non ci sia del buono:  anche il Fernet la prima volta che mio padre me lo diede per sbloccare una paralisi digestiva lo trovai orribile, poi divenimmo amici. Sono contento che i miei familiari abbiano passato il testimone dell’assistenza ad altri, già ho dato troppo fastidio ( e questo è ancora niente)Il viaggio mi sembra breve e il Policlinico è ambiente familiare e rassicurante, in fondo è la mia facoltà dove ho studiato sei anni, sei begli anni. La notizia corre dal cellulare di Bella ad amici e conoscenti e rimbalza tra loro generando stupore, dispiacere o soddisfazione ben celata. In molti si muovono di fretta verso il Policlinico per un estremo saluto se mi troveranno cosciente, altrimenti saluteranno i convenuti ed esibiranno il loro atteso grado di dolore,sperando che mi sbrighi per poter andare via prima dell’alba.

 Se vuoi fare notizia devi giocare sul fattore sorpresa per rendere interessante quella che è altrimenti la cosa più scontata e certa della nostra vita; e poi chi muore giovane resta per sempre tale nella mente degli altri. Oltre una certa età e un certo degrado delle condizioni psicofisiche con il direttamente proporzionale incremento del bisogno di assistenza finisce che, presto o tardi, amici e parenti fanno il tifo per la morte anziché per te. Però io ho i figli ancora troppo piccoli e devo aspettare ancora un po’. Mi consolo al pensiero che alla luce dei fatti, questa è stata solo la prova generale e lo spettacolo vero è rimandato a chissà quando. La grande soddisfazione che il morto si gode ai funerali vedendo quanta gente lo accompagna disperata, io l’ho assaporata grazie alla grande mobilitazione che c’è stata di amici, conoscenti, colleghi, pazienti e allievi. Ho scoperto come molti individui di queste due ultime categorie (pazienti e allievi) nonostante la nostra relazione sia professionale abbiano mostrato un sincero  dispiacere e una reale partecipazione come se veramente occupassi un posto nella loro anima:sono contento di avere tanti rapporti profondi e significativi e credo anche che non siano dannosi, ma anzi utili, al processo terapeutico e di apprendimento;insomma ciò mi ha confermato che sono un buon terapeuta e un buon didatta. Nonostante la mia riservatezza ed il mio essere orso e ritirato, evidentemente con le persone qualcosa scambio. I vecchi amici sono stati più che fratelli presenti quotidianamente. L’unico pezzo della mia famiglia d’origine ancora operativa, mia cugina Lalli, è scesa in campo a fianco di Bella per tutto il periodo acuto del Policlinico, prendevano le decisioni insieme seppure con la consulenza di moltissimi colleghi. Mentre come ben sappiamo il dolore fisico ma anche la sofferenza emotiva hanno valore adattivo e servono a preservare l’integrità fisica e a favorire la sopravvivenza e il perseguimento dei propri scopi; al contrario,non c’è nessun motivo evoluzionistico per cui sia conveniente o adattivo che un cervello che muore debba generare sofferenza ed è esattamente questo che succede. Per questo motivo non è facile descrivere il morire dal di dentro: il cervello non si vede  morire, non si sente morire, non assiste  dall’interno al suo sgretolarsi, non funziona come una sorta di scatola nera che continua a registrare fino agli ultimi istanti della tragedia,Il suo progressivo malfunzionamento va di pari passo con una perdita della capacità di elaborare quanto accade. Possiamo immaginare che il cervello inizi a non riuscire a compiere bene il proprio compito di discriminazione e valutazione della realtà e dunque generi uno stato di confusione che comporta  angoscia, cioè la sensazione che gli eventi che ci troviamo a fronteggiare siano fuori dalla nostra portata e siamo di fronte all’ignoto. Al crescere dell’angoscia il cervello stesso può dare un senso producendo confabulazioni, sogni o rappresentazioni più o meno terrifiche che diano una giustificazione dell’angoscia sperimentata, riempiendo di fantasmi, e qui ognuno ci mette i suoi preferiti, il vuoto della confusione. Fino all’ultimo il cervello cerca di trovare un perché, di produrre spiegazioni, di dare un senso all’angoscia che prova proprio dinnanzi al non senso. Si tratta dunque di uno stato di ansia libera e fluttuante determinata dalla confusione che si appiglia a contenuti occasionali e accidentali per darsi un significato plausibile e narrabile che invece non c’è.

Quello che segue è dunque il resoconto di un uomo confuso e confabulante che a tratti interagiva correttamente con l’ambiente(a detta di quanti mi hanno visto in quelle ore e giorni, senza tuttavia registrare tutto ciò in memoria e, a tratti, sprofondava nei suoi incubi personali organizzati intorno ad un tema di persecuzione da parte di una setta di infermieri matti e posseduti dal demonio, dando in questo modo un senso a quanto gli capitava intorno, all’angoscia che provava per il fatto di stare morendo, alle manipolazioni che subiva e ai fastidi che probabilmente il corpo provava. Insomma fino alla fine alla disperata ricerca di un senso, di una spiegazione: il cervello fino al termine vuole capire e se non ce la fa allora inventa e riempie le smagliature della trama della realtà con materiale proprio di risulta: l’effetto è un vestito pieno di strappi e con toppe incongrue di tutti i colori. In poche parole voglio dire che non si ha paura di morire, si ha paura e basta e poi ci si inventa dei motivi per giustificarla. Una paura pura, senza oggetto che in qualche modo si mitiga quando viene attribuita ad un oggetto reale, ad un motivo. In fondo si sta combattendo con alterne fortune contro la morte e si è assolutamente e totalmente soli. Il reparto del Policlinico è come il week end di ferragosto, ci sono continue partenze,soprattutto la notte. Moltissime persone intorno a me muoiono e, spesso, con grande fatica e sofferenza(in particolare mi colpisce chi muore con la fame d’aria); mi viene da chiedermi se in fondo non abbia perso l’occasione di una buona morte e dopo esserci stato ad un passo, sia tornato indietro per ripercorrere nuovamente questo calvario in salita fra qualche tempo: considerato che comunque bisogna morire, io avevo quasi completato l’operazione con successo, invece chissà cosa ci toccherà la prossima volta .Insomma: Avendo visto morire tanta gente tra atroci sofferenze, non riuscendo a respirare per insufficienza cardiaca; mi sono chiesto se abbia davvero fatto un buon affare a tornare indietro io che ero praticamente già morto e di una buona morte che mi sento vivamente di consigliare per riattraversare tutto il calvario della cura e riabilitazione per poi tornare ad incamminarmi verso chissà quale morte e quando. A queste considerazioni mi ribatto che i figli sono ancora troppo piccoli e che qualche altro anno è utile;vorrà dire che rifaremo la strada in salita che abbiamo fatto stavolta fermandoci ad un passo dalla meta. A proposito dei figli pensavo a quante volte quando stanno male, noi genitori pensiamo che vorremmo sostituirli e stare male al loro posto ma evidentemente non è possibile e, anche se ci facciamo del male, stiamo male in due e non togliamo la loro sofferenza. A me piaceva pensare, per dargli un senso che le mie attuali sofferenze sarebbero state scontate ai figli e ciò le rendeva più tollerabili(speriamo che questo credito sia stato annotato da qualche parte. Tutti mi ricordano quanto sia stato fortunato a non essere morto; altri insospettabili colpi di fortuna che spesso mi ricorderanno gli altri sono : meglio a destra che a sinistra, emisfero con funzioni cognitive superiori (senza contare che sono un destrimano integralista) e poi la giovane età, si fa per dire, che consente un recupero migliore e, lasciamo perdere per ora i vantaggi che comporterà il riconoscimento dell’invalidità:oggi è il mio giorno fortunato:se non hanno buttato il giornale devo guardare l’oroscopo del Sagittario e poi giocare al superenalotto se torniamo in tempo, ma non credo sia questione di pochi minuti. Io sento un solo impellente bisogno quello di fare pipì e pare che fermo tutti quelli che passano dicendo:”scusa collega, io devo solo andare in bagno e poi torno subito a casa. Quando sono in due le insistenze aumentano e a nulla vale dirmi che ho il catetere:io non voglio svuotare il troppo pieno della vescica, voglio fare una clamorosa e liberatoria pisciata. Dopo un po’ ridimensiono le aspettative dichiaro di accontentarmi anche di un tronco d’albero che sostituisce perfettamente il bagno per l’uso che ne devo fare; ma con il catetere non si può pisciare in alcun modo anche se se ne sente impellente e prepotente il bisogno. Allora capisco che occorre togliere il catetere e inizio a raccomandarmi alle infermiere. Tento la strada della corruzione promettendo di sposarmi chi mi toglierà il catetere, la prossima domenica (officiante il primario del reparto che, come si sa ha questo potere come il capitano di una nave) mi rendo conto di non apparire, sul momento un buon partito e cerco di farmi pubblicità dicendo che faccio figli molto belli che tra poco mostrerò appena verranno e che ho un modello 740 altrettanto interessante e mi chiedo come posso raggiungere il commercialista per dirgli di fare un salto qui. Immagino il momento in cui una sforbiciata taglierà il catetere e contemporaneamente partirà un getto inarrestabile di almeno dieci metri di lunghezza e dieci minuti di durata:sarà meraviglioso e mi ricompenserà di tutto, poi domenica il matrimonio (speriamo che Bella sia comprensiva, ma credo proprio di sì. Mi tagliano con le forbici la tuta (bella e nuova) che ho indosso perché non c’è altro verso per togliermela.  Non ho nessun ricordo delle persone che ho intorno, ma posso dire che non provo alcun tipo di sofferenza nè fisica nè emotiva. Lo stato in cui sono entrato è una specie di sogno che mi accompagnerà per giorni:un brutto sogno pieno di mostri travestiti da infermieri e da malati, ma solo un brutto sogno, un mondo a parte popolato di uomini e animali con un atteggiamento sostanzialmente minaccioso e ostacolante nei miei confronti, ma niente a che vedere con il terrore di morire che tante volte avevo immaginato. Non ho memoria di chi sia presente però credo che io dovrei essere a fianco a Bella, perlomeno devo farle una telefonata e mettermi a sua disposizione nei prossimi giorni, anche in quanto medico devo giocare un ruolo in questa vicenda, lei sarà spaventata e smarrita, speriamo che gli amici la sostengano. in questo momento difficile in cui sta per cambiare stato civile e non starmene per conto mio a dormire qui senza far nulla. Il tempo passa e nessuno mi porta in bagno. Mi sembra una eternità che non piscio, anzi forse non ho mai pisciato da quando sono nato, o mi accompagnano entro dieci minuti o non mi sposo più nessuna di queste stronze che non riescono a trovare neppure un paio di forbici gli ho detto che se mi danno le forbici lo faccio da solo: un colpo e via verso l’infinito e oltre. Sarei pronto anche a rischiare un taglio troppo corto:in fondo l’effetto di pisciare dovrebbe ottenersi ugualmente e questo è  ciò che adesso conta sopra ogni altra cosa Comunque ad un certo punto scavalco il davanzale di una finestra con un’anziana signora sarda che mi fa da palo e vado a fare pipì in giardino su un maestoso pino universitario che avevo puntato dal primo anno di università. Vorrei che mi vedessero tutti quelli che nei prossimi giorni si fisseranno sull’idea che non riesco a camminare e dunque mi impediranno di farlo.

Forse non ho paura della morte perché sono già morto. Ma se è così mi aspettavo qualcosa di più scenico e clamoroso. Non dico San Pietro e i diavoli, ma qualche vecchio conoscente a fare gli onori di casa si. Invece insisto, assolutamente nulla nel bene e nel male, tutto come un brutto sogno per una cattiva digestione e una bevuta eccessiva che preme per riavere la libertà dal mio corpo. E’ stupido rovinarsi la vita per la paura di una cosa così banale, ammesso che della morte effettivamente si tratti e non soltanto della sua preparazione. Comunque anche se è solo agonia, vale lo stesso discorso:niente di che, rispetto alla fama di cui gode.

Provo a descrivere il mondo in cui sono immerso. Siamo con Bella su una nave per un viaggio della salute La nave parte da Mergellina (Napoli), poi passerà a Nepi e infine andrà a Civita Castellana; e’ gestita da un gruppo di infermieri provinciali che sono anche malati e che sono una specie di setta che vuole robotizzare tutte le incombenze infermieristiche, così hanno ideato questa casa viaggiante dove fucili elettronici centrano perfettamente qualsiasi pisello sciolto con un catetere che avendo una punta autofilettantesi si avvita automaticamente nel malcapitato e non lo molla più. Nei letti ci sono come pazienti parenti degli infermieri e molti animali(cani, manguste) con i quali gli infermieri hanno strani rapporti. Li trattano molto bene e gli mettono il pappagallo e la padella e io penso di chiamare il 112 e i NAS per denunciare questo uso improprio di un ospedale pubblico. Tra un letto e l’altro si passano una busta di plastica della spesa con dentro un culo enorme, senza nessun corpo attaccato. Dico la cosa a Nino convinto che possa  interessarlo invece anche lui non mi dà retta. Oltre alla setta degli infermieri, a bordo ci sono anche dei volontari di Orte, sono brava gente ma non sono loro a comandare. Noi eravamo già stati lo scorso anno su questa stessa identica nave e già avevamo partecipato alla cena orgiastica  che si terrà stasera in un ristorante di Napoli che poi è la stessa nave che si trasforma. E’ un’orgia di cibo disgustosa dove  tonnellate di pesce viene rovesciato sulla gente che mangia e contemporaneamente fa sesso. Cucinano anche delle enormi ali di cigno o di angelo. La nave è tutta piena di vomito ed io scendo al piano di sotto a prendere una birra con Gigio e un piatto di spaghetti alle vongole per Bella che li aveva già mangiati qui lo scorso anno. Nello stretto spazio di uno stanzone unico ci sono  sette letti tutti con pazienti piuttosto gravi e su ogni letto c’era un monitor sempre in allarme su cui scorre un primordiale videogioco con gare di coppa america di  vela fatta alla Giannella e a Talamone nel 1992, l’estate della morte di papà e i luoghi dove l’ho visto l’ultima volta. Complessivamente possiamo dire che per molti giorni sono stato in uno stato di coscienza alternante: tra momenti di piena consapevolezza e lucidità che pure non restavano a lungo fissati in memoria e uno stato sognante che costituiva il sottofondo unitario del vissuto caratterizzato da soprusi fisici e morali messi in atto da quelle creature indemoniate che immaginavo essere gli infermieri. In questo mondo minaccioso sprofondavo continuamente quando non ero richiamato dal dialogo e dalla relazione con qualcuno dei presenti. Non mi rendevo assolutamente conto della gravità del mio stato e sarei uscito in moto, sin dal giorno successivo al ricovero. Le luci sempre accese non c’era una distinzione tra il giorno e la notte e il tempo fluiva senza marcatori in quanto anche i pasti erano aboliti; Tuttavia quando faceva giorno e spalancavano le finestre alle 6 di mattina per lavare, non vedevo l’ora che arrivasse Bella, solo allora iniziavo a vivere. Ricordo quando il 18 dicembre mi hanno regalato una felpa sportiva e due alberelli di Natale da comodino,ma stento a ricordare quando sono venuti i ragazzi la prima volta anche se mi dicono che gli ho raccontato la storia dei pazienti di quel reparto che sono palloncini che volano rapidamente in cielo e che per trattenerli giù sulla terra ci vogliono i bambini: in particolare figli e nipoti. Al contrario le persone antipatiche fanno volar via i palloncini. Mi ricordo la storia che avevo preparato per loro ma non di avergliela raccontata. Almeno un paio di volte hanno dovuto farmi la notte, perché ero agitato e mi strappavo catetere , sondini e tubi vari, altrimenti mi legavano. La notte il sognare era totalmente immerso nel mondo della nave e degli infermieri satanici con un vissuto d’angoscia molto intenso perché non interrotto dalle chiacchiere con i visitatori ma solo dalle procedure di commiato per  i partenti e dai cambi di turno del personale verso il quale nascevano simpatie e antipatie che tuttavia erano mutevoli e situazionali perché non riuscivo a trattenerle in memoria. Solo quando qualcuno faticava particolarmente a morire e dovevano lavorarci intorno mettevano il paravento e tutti si parlava, mangiava, pisciava e cacava in coro, con i parenti invitati ad uscire un istante solo nei momenti più imbarazzanti dei pannoloni traboccanti.

Durante il ponte  dell’immacolata 8-9-10 Dicembre le cose peggiorano fortemente e la mattina di lunedì 11 si spargerà al DSM la notizia che non ce l’ho fatta:chi piange e chi gioisce, ma non è successo ancora bisogna aspettare. Bella riceve notizie sempre peggiori dai medici, alcuni le dicono di augurarsi la mia morte:poveretta, sono giorni di grande angoscia che Bella cerca di filtrare ai ragazzi per quanto possibile:tutto ciò li farà crescere più in fretta. Per conto mio sono momentaneamente assente e non posso dare una mano a gestire la vicenda. Gli amici e conoscenti sono stati presenti e disponibilissimi dal primo momento. I più vicini e cari preoccupati della mia sopravvivenza, altri preoccupati che non potessi tornare a fare quello che facevo prima, altri, al contrario, preoccupati che invece riuscissi a tornare sopratutto al DSM, e dunque attenti a valutare soprattutto il danno cognitivo, non credo siano stati molti quelli che si auguravano che non ce la facessi ma sicuramente c’erano anche questi ma ai più bastava che restassi scemo o immobile, insomma inutilizzabile:non la rapida pena di morte ma il lungo ergastolo. In molti visitatori credo fosse presente il famoso senso di colpa del sopravissuto):perché era toccata a me e non a loro., ed io d’altra parte sperimentavo il sentimento opposto:la inconfessabile invidia del morto, sentimento meschino ma pure presente che ti fa dire:”perché a me?”. Questa meschina malevolenza verso chi sta bene ed  è giovane e forte, non passa neanche con il miglioramento e il progredire della riabilitazione. Mi spiego:io non voglio guarire, voglio che non sia mai successo niente, vorrei poter fare come al PC ”ripristina configurazione di sistema al 4 dicembre 2006 0re16.43.  Perché un vaso di cristallo se si è rotto e poi viene perfettamente rincollato, non è più lo stesso, io so che è incollato;la sua integrità è persa per sempre. Io non sarò più quello di prima ma al massimo una goffa imitazione. Devo spurgarmi da questo schifoso risentimento che credo renda i malati ancor più sgradevoli e da evitare,poi invecchiando la cosa non può che peggiorare; per questa rabbia i vecchi sono spesso insopportabili; anche la vecchiaia è una malattia da cui non si torna indietro:si può essere giovanili ma proprio in quanto vecchi. Credo che la paura dei morti sia fondata sulla consapevolezza dell’enorme invidia e malevolenza che essi provano nei nostri confronti:ci farebbero a pezzi se potessero. Ma non possono per nostra fortuna. Col pannolone e le gambine magre, magre,non provavo invece vergogna a farmi vedere ridotto male, ad esporre la mia situazione;del resto sin da piccolo ero convinto che mostrarsi deboli e in difficoltà suscitasse la benevolenza e l’accudimento altrui. E questa occasione è stata una vera apoteosi del fare pena e suscitare tenerezza. Una cosa che mi ha fatto davvero un piacere immenso è stato il riavvicinamento di Maria e soprattutto tra Bella e Maria:era una frattura anche dentro di me e ora sto più in pace,ma c’è mancato poco che per avere questa pace stessi in pace per sempre. Bella è stata semplicemente straordinaria e mi ha accudito e coccolato nonostante spesso fossi capriccioso e sgradevole, in una parola insopportabile, ma lei non ha mollato un attimo, compensando anche i miei cedimenti e facendo il doppio ruolo con i figli. Grazie, amore mio di esistere.

Il paziente è espropriato di tutto, non decide più niente e affida il suo corpo agli infermieri che possono tutto, ne sono i padroni onnipotenti capaci di dare sollievo e grande dolore. Improvvisamente non ti appartieni più. Sono gli infermieri che hanno l’autorizzazione a gestire come vogliono il corpo del paziente e credo che questo potere enorme  e non mediato dai medici che si guardano bene dall’intervenire spieghi quei fenomeni estremi che ogni tanto sono riportati dalla cronaca per cui un mite infermiere si trasforma in angelo della morte e pone fine alla vita di moltissimi pazienti. più nella normalità viene da chiedersi come sia possibile che brave persone che scelgono una professione di cura,possano trasformarsi in sadici aguzzini che infliggono ai propri assistiti sofferenze fisiche e morali di ogni tipo. Forse la spiegazione sta nel fallimento del comportamento di accudimento che è sentito come intollerabile  e si trasforma in un comportamento aggressivo. Se nonostante i miei sforzi tu stai male, non sono io ad essere incapace o a non fare abbastanza ma se tu che sei cattivo e ti meriti il male che hai: devi essere punito per aver vanificato i miei sforzi. Tu mi sbatti in faccia la mia impotenza:la tua sofferenza è un’accusa a me e io te la farò pagare: spostandoti l’agocannula quando non serve, trattandoti come un cretino, lasciandoti 50 minuti seduto sulla tazza del cesso, tirandoti su proprio dal braccio che ti fa male, allontanandoti, con noncuranza mentre passo il tavolinetto che stai tentando di raggiungere, proteso in avanti sulla carrozzina. I dispetti grandi e piccoli che si possono fare ad un paralitico che non è autosufficiente sono un’infinità. Il primo è la perdita della dignità chiamandoti per numero o per diagnosi o con vezzeggiativi  come “nonnino, dottore, amico caro!” e non avendo nessun rispetto per la privacy fisica o pudore, come si diceva prima del garante. Attenti figli ai genitori! Chi è destinato ad accudirti, se non ci riesce, può diventare il tuo peggior nemico perchè la tua sofferenza è il suo fallimento ed allora deve sopprimerla o attribuirne a te la responsabilità e punirti per questo. Forse c’è qualcosa del genere sotto gli infanticidi: Per lo stesso motivo ho visto psicoterapeuti diventare ostili e iatrogeni nei confronti dei pazienti che non miglioravano:innescando peraltro un pericoloso circolo vizioso: i due diventano nemici in guerra senza esclusione di colpi. Tanto più la professione di cura era sentita come una vocazione, su cui poggiare l’identità e tanto più questo rischio è presente. Sono gli angeli dell’assistenza che possono trasformarsi in angeli della morte, non chi lo fa per lo stipendio o come un mestiere qualsiasi. Si può trascorrere il tempo attenti a non perdere lo scatto della lancetta dei minuti sul grande orologio della camerata, si possono immaginare animali fantastici nei contorni delle macchie di umido del soffitto, si può accompagnare il lento gocciolare della flebo nel piccolo contenitore sottostante la bottiglia,si può leggere, avanti e indietro il nome della ditta che ha in appalto la lavanderia e immaginare il percorso esterno delle lenzuola che attraverseranno Roma per poi ritornare qui dove noi restiamo ad aspettarle, si fruga nella vita privata del vicino di letto a partire dai racconti che scambia con i parenti e dalle cose che gli portano; si possono immaginare esistenze intere, storie plurigenerazionali, vere e proprie saghe familiari che nei decenni si srotolavano verso l’appuntamento che avevano qui a dicembre del 2006 alla stroke unit  del Policlinico Umberto I che ci aspettava paziente certa che saremmo arrivati puntuali. Si passa il tempo osservando il dividersi e il ricongiungersi dei rivoli di pioggia sulle finestre dai vetri sporchi. Si cercano spiegazioni di quanto sta capitando, si pensa a cosa si sarebbe potuto fare per evitarlo;si cerca di immaginare come sarà dopo, mentre non è ancora affatto scontato che un dopo ci sia. Si cerca di contare almeno fino a dieci tra un attacco di tosse e un altro. Si getta il piede oltre la sbarra e si spia quale possa essere una via di fuga percorribile,poi si risprofonda sconfitti e si risponde rassicuranti a qualcuno che cerca di parlarti e ti chiede come stai, ma tu non lo sai anzi non sai se ci stai:intanto l’edema gonfia come un palloncino tutto il cervello e potrebbe arrivare alle aree che controllano il funzionamento corporeo (respirazione frequenza cardiaca, pressione arteriosa, glicemia) e allora gli allarmi sul monitor suonerebbero e ci sarebbe un gran trambusto e poi di corsa qualcuno che sale su uno sgabello per sovrastare il letto e poi una spada di epinefrina nel cuore e gli elettrodi umidi sul torace e poi il grido consueto:”Libera!, Libera ancora! E i medici che si scostano di un palmo per non prendere la scossa e poi la rabbia per la fatica sprecata, la stizza per l’insuccesso e il sangue che perde la sua spinta dentro le arterie, si ferma, ritorna un passo indietro come il pulman dopo una brusca frenata e poi un ultimo rantolante respiro per prendere quanta più aria possibile e gli occhi spalancati e midriatici a catturare la luce e un ultimo sbalzo in avanti quasi a volersi sollevare e poi basta(così mori mio nonno nel settembre del 1974 ed io ero al suo fianco quando i suoi occhi ormai cechi da anni sembrarono accarezzare per l’ultima volta il mondo e indugiare su di me per un saluto. Poi lo portarono in una stanza dove io gli feci la barba  e rimanemmo finalmente tranquilli per un po’, poi tutti a mettersi in maschera per il funerale. Stare soli con una persona morta cara dà un grande senso di serenità. La sofferenza non c’è più e l’anomalia che la vita costituisce è rientrata nella normalità della morte;perché ricordiamoci che non è strano il fatto di ammalarsi o di morire, ma al contrario è improbabile essere vivi e in buona salute:ma per un bizzarro bias cognitivo normalmente non pensiamo a ciò e ci crediamo immortali e restiamo sorpresi quando l’entropia riprende il posto dell’improbabile ordine della vita. Nella mia famiglia i momenti importanti della vita, gli snodi essenziali che marcano il tempo e sui quali ci si sofferma volentieri indugiando in racconti sono le morti con la ricostruzione delle ultime ore, le ipotesi sugli stati d’animo, i pensieri, le paure,i “come sarebbe andato se …..”: la mia esperienza sarà molto meno epica e più prosaica di quanto mi aspettassi. E’ vero che la mia non è stata un’esperienza compiuta fino in fondo, ma, insomma, a meno di colpi di scena finali,l’andazzo era quello dello sprofondare in un sonno agitato da incubi ridicoli e avendo un po’ di caldo, un po’ di sete, la bocca amara e la voglia di sgranchirsi le gambe: insomma, si può fare, si può fare!Chissà perché poi occorre ingannare il tempo quando ce ne è rimasto così poco e ogni istante è unico, forse l’ultimo.

 

La stanza della nave dove siamo e che risulterà essere la stroke unità è arredata con i mobili di un commissariato di polizia che evidentemente sono stati donati all’ospedale dalla Polizia di Stato. Due piani sotto sono certo che c’è il nostro salone e so che nel frigo c’è un bottiglione gelato di Aglianico bianco del Vulture,ma non mi fanno andare a prenderlo e anche Nino non ci va, nonostante la promessa di una spaghettata che non sarà mai fatta, neanche quando la nave si ferma a Nepi in un ospedale da campo italiano all’Artico dove esco a piedi sul ghiaccio e senza le scarpe che stanno in un ripiano ai piedi del letto ma che nessuno mi dà neppure per raggiungere la casa di Nepi in una distesa ghiacciata di baccalà messi al sole ad essiccare, nella zona del centro commerciale. Le renne(animali amici degli infermieri perché consentono di appendere le flebo alle corna durante il trasporto dei malati) sono catturate per soddisfare i perversi desideri sessuali degli infermieri che ora capisco essere indemoniati(ci vorrebbe un esorcista o perlomeno Don Roberto). Nel mio letto c’è un cane peloso che mi ingombra e voglio cacciare(il sesso non m’interessa). Bella mi dirà essere la mia gamba sinistra che non riconosco. Mi accorgo che a posto della mia mano sinistra c’è un pezzo di carne, a forma di mano che non si muove e non sente niente. Dopo qualche giorno mi convinco che può essere la mano di mio padre perché assomiglia alle mie ma è decisamente più vecchia, anzi direi morta; comunque:è comoda perché lì attaccano tutte le flebo e gli aghi cannula che mi nutrono, senza pungere me. I medici sono tutti specializzandi di Palermo che forse vogliono poi andare a lavorare all’ospedale “Cervello” della loro città. Non ho un buon rapporto con loro e una giovane dottoressa è decisamente molesta e mi chiede continuamente che giorno è, Per vedere se ci sto con la testa. Siccome insisto per alzarmi e andare in bagno mi legano al letto: essere contenuti è orribile e dovrebbe essere proibito per tutti gli esseri umani e anche per le bestie,al massimo ci possono essere delle porte, ma i legacci sul corpo mai più a nessuno. Peraltro i legacci aumentano la rabbia e il clima aggressivo si diffonde in tutto il reparto aumentando la necessità di contenzione:è essa stessa a causare la sua necessità. Mi proibiscono di mangiare e bere per paura della disfagia o mi danno poltiglie che andrebbero di traverso ad un leone.  Sono venuti tutti tranne mio padre e devo dire che sono indignato per la sua assenza, si è limitato a darmi questa mano sinistra. Bella mi fa notare che papà è morto 14 anni fà ma io ribatto che mi sembra che questa storia stia diventando un alibi: credo che Bella sia allarmata. Comunque un giorno che non ne potevo più di stare al policlinico e avevo deciso che dovevo andar via o sarei morto e Bella non mi portava via in moto come chiedevo,Allora in quel momento disperato è arrivato lui e mi ha detto: ”questo non è posto per te, adesso chiamo un taxi e si va a casa. Poi non se ne è fatto niente perché quando a casa,  mi ero impegnato a cercare di non morire, mi ero detto che non avrei seguito nessuno che mi avesse chiamato a seguirlo in un bel posto, tanto più se trattatavasi di papà o mamma. Quelli erano i giorni in cui i pazienti veri (non gli infermieri della confraternita che facevano il ruolo  di  finti malati morivano continuamente. Ogni notte una strage e siccome si teneva la finestra socchiusa per far uscire le anime che partivano come nel week end di ferragosto, entrava dalla finestra sulla valle del Nilo, la pattuglia acrobatica dei pipistrelli della Sapienza che, per intrattenerci, faceva spettacolo tutta la notte nelle deliziose tutine elasticizzate rosa da esibizione.. Ogni tanto c’era un goffo tentativo di rianimazione e quando usavano il defribillatore le luci si abbassavano per un attimo come nel braccio della morte quando si accende la sedia elettrica, ma non ne riachiappavano uno che è uno e verso le cinque di mattina,ogni giorno, chiamavano il “servizio salme” che arrivava con una bellissima lettiga tutta metallizzata  con il tettuccio richiudibile che chiamavano “la definitiva”. Nel mitico letto n. 6 davanti al mio che era il numero 7 c’era un continuo ricambio, e raramente si superavano le 24 ore, anche se entravano in piena salute per un check up. Per rimanere in tema devo dire che ho continuato a telefonare a papà fino al 29 dicembre dopo molti giorni di S. Lucia. Mi sembra una sorta di delirio postumo riattivato, a distanza di anni, dalla difficile situazione che stavo attraversando e che aveva riacceso prepotentemente il sistema di attaccamento, che per me, vuol dire papà. Però è rimasto qualcosa di strano, come se il confine tra il nostro mondo e l’altro fosse diventato più labile. Insomma non mi meraviglierei più di tanto se adesso entrasse nella mia stanza papà per una visita e oggi sono tre mesi dal colpo,sarebbe ora che chiudessi la porta .

Improvvisamente sono dipendente completamente dagli altri per le più elementari funzioni corporali:tolto il catetere mi ritrovo ad usare il pappagallo e spesso sbaglio tempi o mira, facendo arrabbiare Bella che teme mi rimettano il catetere. Da allora il controllo degli sfinteri mi genera ansia ed essa interferisce pesantemente con le performance degli sfinteri stessi che, fino ad ora per due volte mi hanno fregato(avrei voluto sparire per sempre). Un altro tubo è il fastidiosissimo sondino naso gastrico che mi tengono perché secondo loro sono disfagico. L’aspetto più interessante è che nessuno dà mai ascolto e credito a quello che i pazienti dicono: non sono disfagico se solo mi dessero da mangiare qualcosa degno di tale nome. Si dipende completamente da medici e infermieri che hanno come prima regola quella di non ascoltarti e qualora ti ascoltino di non prenderti sul serio e comunque di non risponderti e, semmai rispondano, di non mantenere ciò che hanno detto. Si ha L’impressione di non esistere o, al più di essere un ospite indesiderato, che se non ci fosse sarebbe molto meglio e non disturberebbe il loro lavoro che, certamente, non è quello di occuparsi dei malati, inutili ingombri. Mi chiedo se sia possibile organizzare una sanità che abbia al centro i bisogni del malato e di cui lui sia il protagonista e il gestore: me lo ripropongo come buon proposito di professionista e come dovere e sfida per l’aspetto manageriale del mio lavoro.

Si può essere lasciati per oltre un’ora sulla tazza del cesso da un garbato signore che minacciandoti di non fare nulla da solo, perché sei sotto la sua responsabilità, ti lascia dicendo di tornare entro tre minuti e poi ti rimprovera perché non hai chiamato(con un campanello a cui non puoi arrivare e cercavi di arrangiarti per tuo conto per non rimanere lì a scolare in eterno come le monache dell’isola d’Ischia. L’anosognosia, cioè la non consapevolezza di malattia, mi spinge continuamente a tentare di alzarmi, al punto che saranno costretti a legarmi a letto e inoltre chiedo continuamente a Bella di portare la moto per andare in giro insieme ad un negozio di Via Giulia; secondo me non ho alcuna limitazione funzionale e dunque nessuna preoccupazione per il futuro(grande consolatrice l’anosognosia: per me era come aver avuto una polmonite invalidante per un paio di settimane e poi dimenticata, invece non sarà così, ma meglio non saperlo da subito.

.Il 27 dicembre si riprende l’ambulanza per andare sull’Ardeatina (mi è proibito prendere la macchina come vorrei fare. Sono felice perché lo immagino un posto pieno di gabinetti cui sarà facile accedere, ma non sarà così per molto tempo; dopo 22 giorni dunque, senza aver sciolto la prognosi, vengo trasferito al Santa Lucia, clinica per la riabilitazione e qui mi rendo conto che sono definitivamente uno storpio e mi viene la depressione che  sostituisce in parte l’anosognosia.e che  non è utile perché ci vuole grinta e bisogna lavorare: due ore al giorno di fisioterapia e una di terapia neurocognitiva per l’eminattenzione, uno strano fenomeno per cui si è disattenti completamente agli stimoli provenienti dalla parte del lato lesionato: ci si vede e ci si sente benissimo, ma non si presta attenzione; così si mangia soltanto la metà destra del piatto e ci si fa la barba solo a destra, si parla solo con chi sta sulla destra e si ignora tutto ciò che avviene nella metà sinistra del mondo:è incredibile e grottesco, ma non c’è niente da fare, è rimasto soltanto mezzo mondo di cui occuparsi. Il primo giorno al S. Lucia mi fanno un clistere e poi mi lasciano a letto tutta la notte con la padella avvolta in due pannoloni (la soluzione del sarcofago di  Chernobyl) che si ripeterà un’altra volta, quando però sarò salvato dalla presenza di Lalli che richiama gli infermieri. Al S.Lucia,efficienza della sanità privata, la carrozzina per me arriva dopo 10 giorni e il tavolo della stanza non è mai arrivato in 5 mesi. In compenso c’è la televisione proprio sul letto e mi rimbambisco di TG di tutte le reti (è il periodo dell’esecuzione di Saddam Hussein e del fine anno con auguri,petardi e champagne) di notizie meteo e di oroscopi che vengono ripetuti continuamente e poi i programmi sul cibo a tutte le ore: la televisione a dosi massiccie disorienta nel tempo e spesso chiamo Bella la mattina prestissimo perché mi sbaglio: lei è sempre comprensiva e paziente.

I bambini dopo le scoperte di Bowlby non si ricoverano più senza la vicinanza dei genitori come si faceva prima degli anni ’60: per gli adulti dovrebbe essere uguale: la famiglia e gli affetti sono un forte fattore terapeutico. Di nuovo sperimento l’unico male emotivo che ho conosciuto in vita mia e che chiamo nostalgia ed è un dolore profondo e inconsolabile dovuto alla lontananza della persona amata: ricordo i distacchi da mio padre  quando ero piccolo e poi dalle persone amate quando ero grande. Non è paura che succeda qualcosa o che non me la sappia cavare da solo, è come se tutto perdesse di senso, e di importanza: io stesso e tutto il mio mondo diventa inutile, noioso, senza senso. Ho sempre pensato che questo mio male  fosse stato causato dalla precoce perdita di mamma e, siccome ne ho sofferto molto, vorrei proprio che non lo conoscessero i miei figli e per questo mi riprometto di fare di tutto per non morire e non fargli rivivere lo stesso passaggio.  Senza Bella il tempo si dilata all’infinito: non faccio altro che aspettarla ma poi, anche quando c’è sono triste al pensiero che di nuovo ci separeremo. Peraltro sono consapevole che questo non è amore, anche se ad esso si sovrappone, ma un bisogno malato, una impossibilità a esistere senza accanto l’oggetto d’amore: quanti patimenti ho passato  e nonostante tutto l’affetto ricevuto, questo buco resta incolmato ed è sempre pronto a riemergere: Temo di essere troppo appiccicoso e che Bella prima o poi si stanchi ma non riesco a fare diversamente, senza di lei mi manca il respiro e il mondo mi sembra brutto, senza senso e impolverato.

Quando inizio la fisioterapia sono ridotto ad una conchiglia che non riesce neppure a stare seduto. La paralisi per ora è flaccida, poi diventerà spastica e inizieranno i dolori ad ogni tentativo di mobilizzazione. La mia terapista è Loredana, una ragazzona di Frosinone identica a Mafalda. Chiacchiera molto e io la prendo molto in giro: credo che si sia affezionata molto a me, forse troppo. Il pomeriggio invece la terapista è Paola, uno scricciolo, ma davvero bravissima. La fisioterapia, prima della spasticità dolorosa, è piacevole e consiste in una sorta di danza dove ti lasci dolcemente guidare nei movimenti passivi e via via cerchi di assecondarli, di metterci intenzionalità e forza, reimparandoli e attivando neuroni cerebrali diversi da quelli che sono morti. Loredana mi accora dicendomi in continuazione “dritto con la schiena, “tira sù quella testa; è un martellamento continuo, un rumore di fondo che perde ogni significato ma non può farne a meno; anche quando la incontro a distanza mi spavento e tiro sù la schiena; quando lei non c’è Bella le fa da eco. Paola un giorno mentre mi contorco dai dolori addominali mi stringe una mano e mi procura un sollievo umano per cui le resterò riconoscente

Con il progredire della fisioterapia, prima imparo a stare seduto non raggomitolato, poi a girarmi nel letto;poi in piedi fermo allo standing ed infine qualche passo alle parallele. Iniziando a muoversi si inizia a cadere, soprattutto dalla carrozzina nel tentativo di chinarsi; niente di grave ma quando stai a terra sei del tutto inerme e impotente,, come un bacarozzo con la pancia all’insù, non puoi far altro che muovere inutilmente le gambette nel vuoto fino all’arrivo dei soccorsi e il tempo, per terra, in bagno, sotto il letto o con la sedia rovesciata sopra sembra non passare mai.

In tutta questa vicenda che ora mi vede in piedi camminare con il bastone e fare a meno della mano sinistra ho scoperto alcune cose:

In primo luogo che il morire non è così orribile come si pensa e dunque non bisogna preoccuparsene tanto:quando sarà il momento lo faremo come tutto il resto. Piuttosto è importante assaporare ogni istante di vita per quello che è e renderlo il più possibile piacevole , che è solo il presente ad esistere mentre gli altri tempi sono solo una rappresentazione mentale ipotetica e incerta. I bilanci di piacevolezza vanno fatti a breve termine: non si può soffrire oggi in vista di un piacere distante nel futuro. Così come ad ogni giorno basta la sua pena, altrettanto ogni giorno deve avere la sua gioia.

In secondo luogo ho ampliato moltissimo il range di quello che posso aspettarmi dagli umani, compreso me stesso: picchi di generosità e di oblatività estrema, si alternano e si mischiano ad abissi di meschinità, indifferenza, egoismo:questo siamo noi uomini, è la nostra natura che ci stupisce quando la vediamo negli altri ma permea noi stessi fino al midollo.

E’ troppo difficile cambiare il mondo ma qualcosa di minuscolo in questa vita la possiamo fare: affermare la nostra verità, ascoltare quella degli altri e carezzare il dolore quando lo incontriamo traboccante dalla mente e dai corpi de nostri compagni di strada che poi perderemo di vista. Non sempre è in nostro potere di curare il dolore:è sufficiente fermarsi un attimo a carezzarlo. Nel giorno finale del giudizio universale sarà il Signore Dio a darci conto e ragione di tale oceano di sofferenza: sarà per lui un brutto quarto d’ora e noi riavremo indietro le carezze fatte ai dolenti e i sorrisi regalati ai tristi

 

 Ora è tempo di bilanci perché è passato del tempo dal black out e si può tentare di rivedere tutta la vicenda a mente fredda. La prima annotazione è che c’è un prima e un dopo, una frattura esistenziale, il 5 dicembre sarà festeggiato come un altro compleanno, l’inizio della parte due dell’esistenza e questo mi fa rivalutare tutte le celebrazioni e le feste che marcano il tempo che passa e i mutamenti che avvengono: i passaggi esistenziali finora sempre snobbati come se tutto fosse sempre uguale.

Il tempo dell’emergenza, i momenti eroici di lotta per la vita prima e poi per i  bisogni primari (mangiare bere e andare di corpo) sono finiti e ormai siamo nel tempo della normalità.

Sono anche passati i tempi delle speranze miracolose, dei viaggi della speranza a Pisa e i miracoli non ci sono stati, ma stiamo in fiduciosa attesa. .Si va avanti con la regola del gradino dopo gradino senza guardare mai tutta la scalinata che altrimenti si avrebbe netta la sensazione di non potercela fare: se pensi di marciare per 30 Km. immagini di non farcela, ma non puoi pensare così se ti dici che devi fare un passo ancora, solo un passo, non è possibile non farcela. Ho sempre pensato che la stanchezza non dipende da quello che abbiamo alle spalle ma da ciò che abbiamo di fronte e più che stanchi siamo spaventati all’idea che lo saremo( per questo il lunedì mattina si è più stanchi del venerdì sera, dopo una settimana di lavoro).

Le giornate sono scandite da piccoli compiti in successione e tutta la concentrazione va sul prossimo da affrontare: mettersi seduto sul letto, conquistare la stazione eretta e distribuire il peso sulle due gambe e non solo a destra, raggiungere il bagno, scavalcando un campo minato di scarpe e tappetini, centrare la tazza, tagliare la carta igienica lungo la linea predisposta appositamente, salire su un panchetto e da lì scavalcare il gradino ed entrare nella doccia;  strusciare la spugna sul sapone poggiato su un’altra spugna ruvida che lo tiene fermo, attento a che nulla cada creando un imprevisto che comporti una ri-programmazione delle sequenze standard e l’invenzione di nuove acrobazie ad hoc, regolare la temperatura dell’acqua , aggrappandosi ad un maniglione messo apposta per non inabissarsi sul fondo del piatto doccia; riscavalcare in avanti senza appoggi il gradino della doccia e fermarsi sul panchetto stanchi ma soddisfatti dell’impresa compiuta e restare nudi e gocciolanti a programmare le prossime mosse nell’ottica del massimo risparmio dei movimenti, poi il lancio dell’asciugamano, come il mantello di Zorro sulla spalla sinistra e il tentativo di riacchiapparlo da dietro per farlo scorrere sulla schiena senza legarsi come un salame,un momento di brivido perché con i piedi bagnati si scende sul pavimento e si potrebbe pattinare via  ma le unghie prensili afferrano il maiolicato e ci si regge. Di nuovo seduti sul letto gambe accavallate e piede sinistro nella mutanda, poi il destro poi in piedi e su le mutande, anche a sinistra, ricorda passando da dietro, poi di nuovo seduti e gambe accavallate per calzino sinistro e stessa operazione per il destro, alla fine se avevi predisposto tutto a portata di mano ti sarai alzato e riseduto 10 volte, d’estate eri già sudato, d’inverno sei infreddolito e le mezze stagioni non ci sono più. Pantalone sn. e poi il dx., in piedi camicia manica sn. e poi dx., attenzione suprema ai bottoni perché se abbottoni storto occorre ripetere tutta l’operazione ed è già tardi, è un anno che sono sempre in ritardo io che ero così puntuale: l’essenza dell’handicap è il ritardo, la lentezza. Il bottone del polsino dx. non è neppure da provarci, è impensabile, provato anche coi denti con pazienza e con furia ne si abbottona nei si sbottona e la sera sarebbe bellissimo dormire con la camicia e quando posso lo faccio, ma Bella è intransigente e non vuole barboni a letto. D’estate la faccenda era finita, invece in inverno c’è il maglione che si mette solo se è aperto davanti, altrimenti non c’è verso assolutamente (sembrerà strano ma è così, provateci).Ancora seduti, accavallare e poi scarpa sn e poi dx.che per fortuna hanno il velcro e non i lacci altrimenti c’è un modo complicatissimo che dura 20 minuti se riesce. Se le scarpe sono appoggiate per terra a sinistra, alzarsi, raccoglierle e poggiarle a destra oppure tentare uno sbilanciamento vertiginoso per prenderle a sinistra con la mano dx e il sedere che scivola pericolosamente verso il bordo del materasso.

 

Colazione come da prescrizione medica con tè yogurt, e fette biscottate e tre medicine, le giacche a vento ne ho comprate due diverse, oltre il parco già disponibile, per cercare una in cui la mano passi nella manica (il problema è sempre lo stesso: prima si infila l’arto plegico, meno mobile e dopo l’altro ma se il braccio sta serrato contro il torace l’indumento non sale e non fa la curva della spalla e così non si arriva a farlo girare dietro abbastanza e si resta come con la camicia di forza; tale manovra se sei  da solo è un caso fortuito se riesce e non puoi mai saperlo prima come andrà oggi. Quando tutto questo è fatto potresti tornare a letto perché non sei solo stanco ma anche un po’ frustrato  e ti viene da dire “ per oggi ho dato, basta”. Invece deve ancora iniziare una bella giornata di computer, terapie e ritardi, ma guardiamo un gradino per volta che la scalinata intera spaventa inutilmente. Si esce di casa con piroetta sullo stoino, poi ricordarsi di chiudere la porta, almeno tirandola dietro e non sempre succede e ti senti un coglione o proprio lo sei. Anche la porta dell’ascensore va richiusa  dopo che sei uscito ma per farlo ti devi spostare  il che equivale a fare manovra e basta che la porta incontri sulla sua traiettoria il piede che bisogna ricominciare con un’altra manovra. I portoni romani pesano e spingono alle spalle con molle potentissime ma si resta in piedi. Non pensare neppure che forse avresti voglia di riandare in bagno: questo non te lo puoi permettere proprio, pochi gradini veri e sei fuori e pensa che 1 anno fa erano una barriera invalicabile e venivi portato a braccia con mille sforzi e rischi: nel constatare i miglioramenti una gioia incontenibile ti assale ma devi contenerne le manifestazioni esteriori altrimenti cadi e da terra non ci si solleva. Del resto non è facile gioire sempre perché non si è morti e la si può raccontare o perché poteva andare peggio e non parlare o non vedere o peggio ancora perché c’è chi sta peggio il che semmai mi rattrista e dovrebbe farlo a tutti i non sadici, e mi commuove, altro segno della vecchiaia che incalza.

Tra breve sarai nelle mani dei curatori ed è un’esperienza particolare di abbandono per ore tra le mani forti dei fisioterapisti o delicate dell’agopunturista  o sul lettino della psicoanalista. Una serie di persone che si affaccendano per aggiustarti il fisico e la mente o più banalmente i pantaloni che ti calano e vanno sotto il tacco, sei nelle mani degli altri che ti tirano, ti sollecitano, ti sballottano. Grazie a questo e a tutte le pratiche mediche e riabilitative, dolorose e no, che si sono accanite sul mio corpo nell’ultimo anno (aghi, cannule, cateteri, sondini e stai fermo nella risonanza magnetica e con l’EEG) ho imparato a slittare in uno stato di coscienza diverso che forse è la famosa dissociazione in cui il corpo è lì ma tu te ne vai e non ti importa di quello che gli fanno, sei assente, altrove e aspetti che passi per tornare dentro il grottesco involucro ( come dice Giulia quando fa gli esorcismi a Gigio).

In compenso hai imparato a chiedere aiuto per le cose concrete, a chiedere di farti passare, a rivendicare qualche tuo diritto che inizi a sentire di avere e devi essere aiutato spesso perché ci sono una infinità di cose che con una mano sola, ancorché dx., altra grande fortuna, non si fanno (prima non lo immaginavo neppure): tirare su una cerniera lampo, aprire un PC portatile, aprire una bottiglia di vino, riempire la pipa, infilare dei fogli nelle cartelline porta documenti trasparenti, strappare una ricetta o una fattura lungo la linea tratteggiata, regolare l’orologio, tagliare qualsiasi cibo, aprire una bustina di zucchero o una lettera o un barattolo a vite, ecc. né scopro sempre di nuove.

 

Passato un anno capisci che ci sono certe cose che davvero non farai mai più come correre  o arrampicare  e questo senso di definitività senza ritorno ti da senso di impotenza e di tristezza ma pensi alle cose che ancora non puoi fare ma che forse farai di nuovo come le vacanze, i viaggi, le passeggiate e a quelle che già fai: il lavoro, le lezioni, lo studio. Sei fiero quando riesci a fare un piccolo movimento nuovo come un bambino di un anno e lo mostri agli altri anche per incoraggiarli a resistere nella loro pesante battaglia al tuo fianco;poi ti fa rabbia quando basta saltare una sera la compressa di nopron per ritrovarsi il giorno dopo tremante e rigido con una regressione di tre mesi. Il corpo è malgovernato, soprattutto mancano i freni corticali. La funzione inibitoria così come per il tono muscolare, da cui l’ipertono spastico, sono difficili da trattenere le funzioni fisiologiche o anche il riso che, soprattutto quando non deve esserci ed è inappropriato e temo che ridendo farò una brutta figura, diventa incontenibile e sembro uno scemo totale, un cortocircuito neuronale.

Le emozioni più costanti sono il disgusto e la vergogna di fronte agli altri anche se forse c’è sempre stata e solo che oggi mi sembra disvelata una realtà che prima era solo interiore e invisibile agli altri: il bluff è smascherato e il corpo è lo specchio dell’anima, un’anima storpia e spastica, ingannevole e meschina che zoppica e barcolla goffamente.

Incontri sempre qualcuno che conosce il medico o il terapista straordinario che lo ha risistemato e di cui ti da il telefono e l’indirizzo e poi ti incalza per sapere come ti sei trovato e se hai iniziato a correre come il suo vecchio zio  che però si era impegnato tanto. Molti ti fanno mille raccomandazioni e ti invitano a cambiare vita e non sanno che l’hai già fatto per forza e non perché sei cambiato dentro ma come un ladro che non ruba più solo perché sta in galera. Altri ti dicono che  stai proprio bene che la faccia è normale e la voce è tornata quella di prima, ma come credergli dato che prima non ti avevano detto che avevi la faccia da scemo e parlavi biascicando? Poi molti ti fanno i complimenti per il coraggio con cui stai affrontando la vicenda e tu gli spieghi che non sei un eroe e che non puoi fare diversamente e che se fosse possibile scendere da questa giostra lo faresti immediatamente ma non si ferma mai. C’è un modo di essere straordinari anche nella malattia: da bambino prodigio ad handicappato prodigio per la gioia dei terapisti che possono ritenersi in gamba; anche con loro cerco di farli contenti. Insomma in genere fai pena per un po’ di tempo e dopo fai spazientire: “ e muoviti! Cerca di essere più pronto e deciso ! e piega questo cazzo di ginocchio!”.

 Poi ci sono gli altri che non ti conoscevano prima e con i quali non hai nessun credito di stima e affetto e allora diventa importantissimo vedere l’effetto che fai: ci tieni moltissimo a piacere, come un adolescente dal corpo che cambia, vorresti piacere e sai che fai disgusto, sarebbe bello se qualcuna si innamorasse di te senza essere una badante, i grandi affetti del passato ritrovati sono una grande consolazione, una meraviglia ma sono un’altra cosa dalla vanità di piacere oggi. Ai nuovi altri che non ti conoscevano ti verrebbe voglia di dargli il tuo curriculum precedente quasi a dirgli :voi non sapete chi ero io, quanto sono stato importante per molte persone!  Che fatica gli incontri,per questo l’atteggiamento che preferisci quando non puoi dormire è quello di ritirarti in un bozzolo, di chiuderti e fuggire gli sguardi dove temi di vedere il ribrezzo e la pena. In alternativa c’è l’esporre la propria malattia le proprie storpiezze e riderci sopra con il solito cinismo per cui nulla è importante, nulla ti tocca. Dire male di se stessi inoltre spinge gli altri a dire l’opposto: buttati giù e ti tireranno su. Innalzati e ti abbatteranno. Mostrare il proprio handicap da anche dei vantaggi come il posto auto, la riduzione delle aspettative e richieste degli altri e soprattutto il concedersi di poter dire: non rompete, sono stanco. In realtà l’altro semplicemente non può condividere, non può sentire il tuo male neppure un istante, non ti pensa proprio; ricordo quando papà di fronte ad un mio dolore fisico mi diceva per rassicurarmi che lui pur stando vicino non sentiva niente e dunque non poteva essere così forte.

Due sono le paure maggiori, quella di essere un po’ instupidito e di parlare male forse perché, parlare e dire cose intelligenti, sono gli strumenti con cui mi guadagno da vivere e forse, per me, il diritto ad esistere, se fossi un atleta o un pianista sarei preoccupato di altro; Poi c’è il timore di non essere in grado di difendermi anche fisicamente, di alzare la voce e farmi rispettare (ma non sono mai stato capace e sono diventato un buono per questo) e di difendere i miei cari. La vergogna pervasiva è connessa a immagini di sconfitta e umiliazione.

Temo che loro, soprattutto loro tre si stanchino e alla fine mi lascino, ne avrebbero ben ragione sono diventato un peso inutile e loro hanno subito un grande danno e per questo sono molto tristi; è qui che penso che se fossi morto oggi la loro vita sarebbe migliore e più libera. Ancora vivi di eredità per quanto fatto prima, ma fino a quando durerà? Poi ti senti in colpa per essere stato male, per non esserti riguardato, per questo non bevi  quasi più e non fumi, non per non stare male di nuovo ma per non averne la colpa; come quando uscisti di strada con la mini e dal finestrino anteriore con la testa ed eri preoccupato non di cosa ti fossi fatto ma di averne la responsabilità per la velocità eccessiva e desideravi scoprire un pneumatico esploso che ti assolvesse.

Forse bisognerebbe smettere di sperare in un miglioramento e fare il lutto verso il precedente progetto di vita e accettarsi così senza arrabbiarsi quando fallisci: si effettivamente non sei più quello di prima e forse non lo sei mai stato, campa da imbecille e accettati anche cattivo, invidioso, brutto. Alla mia età ogni anno si è più vecchi e si perde qualcosa ma qui ho un vantaggio perché contemporaneamente recupero dall’ictus con il risultato che i due cambiamenti si annulleranno; è come se fossi invecchiato improvvisamente di 10 anni  e adesso il tempo si sia fermato. Il tempo che ci aspetta potrebbe contenere cose molto brutte e cioè la separazione dai miei cari, essendone io consapevole e cioè vivo anche se sul letto della stroke-unit ho fatto un patto con Dio per cui queste tribolazioni sarebbero andate a sgravio di quelle loro come quando si dice che quel male vorresti averlo tu e toglierlo a loro: non è generosità ma egoismo puro per evitarmi una sofferenza che ancora reputo intollerabile. In questo c’è anche il pensiero magico per cui dopo un grave danno hai pagato un prezzo e per un po’ sarai esente da sfortune; così come quando pensavo che sarei stato fortunato nella vita perché la mia razione di sfortuna l’avevo esaurita tutta a tre anni con la morte di mamma, adesso ho rifatto il pieno e per un po’ staremo tranquilli. In fondo quello che vorresti è essere ancora importante per qualcuno, che qualcuno abbia bisogno di te e tu conosci un solo modo per esserlo: fare le cose, renderti utile e indispensabile, un elettrodomestico a basso consumo.

 

 Non so se questa esperienza mi ha reso migliore; certo mi interesso all’arte, godo delle piccole cose quotidiane e degli affetti, sono ancora più innamorato di mia moglie e più compassionevole con i sofferenti ma potrebbe essere solo vigliacca identificazione, però onestamente, stavo meglio quando ero peggiore.

 

E’ esperienza formativa essere malato grave da medico e la metterò nel curriculum e auguro ad alcuni colleghi intoccabili e sprezzanti coi malati, di poter fare altrettanto; ma intanto qualche raccomandazione a me e ai colleghi: Sarebbe bello se consultati 3 curanti non avessero almeno 4 pareri non  solo diversi ma proprio opposti per cui la cura caldeggiata da uno è, a detta dell’altro, inutile e secondo il terzo rapidamente mortale (credevo fossimo solo noi del mondo “psic” ad avere questa malattia ed invece tutto il mondo è paese, anzi peggio), quando ti dicono “quello ti ha rovinato”, bisognerebbe flettere finalmente il ginocchio malato e dargli una ginocchiata definitiva sulle palle. Poi lo stesso medico cambia idea nel tempo perché si aggiorna e legge nuove cose: questo è un bene ma fa sentire smarriti, diteci delle bugie ma con un po’ di convinzione e coerenza.

Ci vorrebbe un medico che sia presente, che decida, che non cambi idea e ti spieghi le cose non da collega perché tu sei malato e non più medico. E non sei neanche una diagnosi, un caso interessante, ma una persona che sta male e si trova la vita  inaspettatamente rovesciata. Un medico che ti dica come stanno le cose e si sbilanci in una prognosi (manco se li ammazzi) “bisognerà vedere, la variabilità individuale è moltissima, dipende da mille cose ma soprattutto dipende da lei (allora stiamo freschi!); insomma un medico che ti ascolti e ti parli senza essere vago: che tutto dipende da mille cose lo sapeva anche mia nonna che era analfabeta, da uno specialista che ha studiato 11 anni medicina mi aspetterei di più;

Ci vorrebbe un medico che non ti sgridi se vai male o se stai peggio perchè gli rovini la casistica diventando un imbarazzante insuccesso.

Non servirebbe la medicina orientale. Se la nostra medicina non spingesse solo al cambiamento e al recupero ma anche all’accettazione; una medicina consolatoria e compassionevole che prepari anche al distacco e alla morte, ma forse questo sarebbe troppo doloroso per i medici e non si può chiedere, certo per chi tratta malattie e disabilità da cui non si torna indietro, come gran parte di quelle di cui mi occupo anch’io sarebbe un grande bagaglio, ma ha un grande peso e non sempre  io riesco a portarlo. Quando non ci si fa che serenamente si passi la mano ad altri: se sei più intriso di morte dei tuoi pazienti e neppure te ne accorgi, chiedi a qualcuno fidato di avvisarti e lascia perdere, è un bene per tutti.

 

Ci vorrebbe un medico. Solo un medico