Diagnosi

 

La diagnosi che ho formulato è di Disturbo Distimico. La paziente, infatti, lamenta uno stato dell’umore triste, presente tutti i giorni e caratterizzante la maggior parte delle sue giornate da circa due anni. Tale stato è accompagnato da scarso appetito, insonnia, astenia, bassa autostima, difficoltà di concentrazione. Sono presenti inoltre tratti di Disturbo di personalità NAS Passivo Aggressivo; in particolare la paziente si lamenta di essere poco capita e poco apprezzata dagli altri, oscilla tra atteggiamenti di sfida ostile e di rimorso, fa resistenza ad eseguire compiutamente i propri compiti sociali e lavorativi di routine.

I test utilizzati nella valutazione diagnostica sono stati la SCID-II, l’YSQ e la batteria CBA.

Definizione del problema secondo il terapeuta

L’ansia e la tristezza che la paziente lamenta ruotano intorno alla sua vita universitaria; più precisamente G. quando arriva da me si chiede se lasciare o meno l’università per iniziare a lavorare o iscriversi ad una facoltà più facile. Questo conflitto è legato all’ autoimmagine ossia alla preoccupazione per l’immagine che gli altri hanno di lei.

Nel corso dei colloqui anamnestici ho potuto evidenziare due importanti scopi caratteristici di G.: essere performante e non essere/apparire come una persona vulnerabile e debole. Entrambi questi scopi sono legati alla percezione di profonda inadeguatezza della paziente, che ha origine nel suo vissuto familiare. G. non mi riferisce episodi prototipici di aspra critica o rifiuto da parte dei familiari, mi racconta però fin dal primo incontro la pervasiva e sofferta percezione che la sorella maggiore fosse la figlia preferita dai genitori. Ciò ha condotto la paziente a sentirsi, paragonandosi alla sorella, inferiore e difettosa e l’ha spinta a ricercare di omologarsi a lei: ne ha imitato i gusti, ha condiviso le amicizie, ha seguito il suo iter formativo. Lo scopo di essere performante è una strategia per ipercompensare il suo schema di inadeguatezza ed è sostenuto da una credenza patogena del tipo: sono amabile se e solo se riesco ad essere brava ed efficace. G. ha sempre cercato di dare il massimo di sé nell’ambito scolastico e professionale. Da una parte per emulare il comportamento della sorella, da una parte perché essere performanti ha sempre regolato la sua autostima, anche in momenti di seria difficoltà socio-relazionale nel passato. Da adolescente essere brava a scuola le ha permesso di costruire un immagine di sé come persona di valore e di strutturare delle fantasie di rivalsa, anche sociale, rispetto all’ambiente scolastico in cui si è sentita emarginata.

Lo scopo di non essere una persona debole e vulnerabile  ha alla base una credenza patogena del tipo: se sei debole gli altri si approfitteranno di te o possono sottometterti, ossia è sostenuto dalla convinzione che essere vulnerabili vuol dire esporsi a prevaricazioni da parte degli altri. Questa credenza ha origine nella storia familiare in particolare riferita all’atteggiamento della mamma che si prende cura della nipote schizofrenica (atteggiamento duramente criticato da G.). L’idea di debolezza personale è inoltre associata alla convinzione di poter essere squalificata o attraverso una invalidazione personale (esperienza vissuta quando da adolescente si lamentava in casa del suo isolamento sociale a scuola) o attraverso l’aiuto che gli altri possono offrire  e che G. vive come un fatto estremamente coercitivo, che reitera il suo timore di apparire inadeguata (se non riesce a seguire i consigli che le vengono offerti).

Questi antigoal regolano i suoi problemi:

·       Formativi/lavorativi: Quando prepara gli esami e immagina le sue performance teme di non farcela e di deludere il docente e i colleghi, apparendo come debole e incapace. A ciò si connette la sua impossibilità a chiedere aiuto, legata allo scopo di non essere debole, come la madre e all’obiettivo di riscattarsi e raggiungere i propri valori personali.

·       Nella vita sociale con i coetanei: la vita sociale di G. sembra essere caratterizzata dallo scopo di mantenere una posizione up rispetto ai coetanei, nei confronti dei quali mantiene una atteggiamento  molto disponibile e oblativo (ad es. presta gli appunti, offre ascolto ai loro problemi), e a evitare attentamente di assumere una posizione down (non fa mai richieste, non confida mai i suoi problemi), anche se ciò avviene a costo di sperimentare una profonda rabbia verso gli altri (in particolare perché vede un interessamento rivolto solo a cosa fa e non a come sta) e una profonda tristezza (nessuno si interessa mai a me).